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Recensione – Sword Art Online: Fatal Bullet

copertina

Dopo i risultati altalenanti ottenuti con i precedenti titoli, la saga di videogiochi dedicata a Sword Art Online cambia decisamente rotta con Sword Art Online: Fatal Bullet, portando su console il mondo di Gun Gale Online dove armi da fuoco, mech e androidi sono all’ordine del giorno. Scopriamo insieme se la nuova ambientazione e le numerose novità introdotte a livello di gameplay siano sufficienti a risollevare le sorti della serie.

Il Gioco

Sword Art Online: Fatal Bullet è uno sparatutto in terza persona con elementi RPG, ambientato come i precedenti capitoli della saga nel vasto universo creato da Reki Kawahara e che si colloca temporalmente dopo gli eventi narrati nella serie originale. Siamo nell’anno 2025. Kirito, dopo essere sopravvissuto alla prima versione di SAO ed aver tratto in salvo la sua amata Asuna dalla seconda trappola messa in atto dal creatore del NerveGear, prende parte ad un nuovo VRMMORPG per indagare su alcune morti inspiegabili. Gun Gale Online, questo il nome del nuovo progetto basato su una tecnologia più recente (ed apparentemente più sicura) denominata FullDive, trasporta i giocatori in un mondo post-apocalittico popolato da minacciose creature e pericolosi automi, nel quale le armi da fuoco hanno sostituito quasi del tutto le armi bianche. I sopravvissuti si sono stabiliti all’interno di una astronave, la SBC Glocken, creando una sorta di città dotata di appartamenti, strade, negozi e un’area comune nel quale i partecipanti si incontrano per mettere insieme gruppi organizzati o creare sfide PVP.

E’ questo il contesto nel quale ci troviamo una volta avviato il titolo, dove dovremo iniziare a muoverci dopo aver creato il nostro alter-ego tramite un classico editor. Infatti, diversamente da quanto accaduto in passato, qui non ci troviamo ad impersonare personaggi famosi come Kirito o Asuna, ma un giocatore qualunque, invitato in questo mondo online dalla sua amica d’infanzia Kureha. Dopo aver effettuato il primo login il “novellino” viene subito coinvolto in un evento globale nel quale è possibile ottenere una ricompensa speciale, che funge da lungo tutorial interattivo.

Inutile dirvi che, in un modo o nell’altro, il protagonista riesce a mettere le mani sulla preziosa ricompensa: un androide di classe ArFA-sys Type-X di ultima generazione, che lo accompagnerà nel corso della sua avventura online fornendo supporto sia sul campo di battaglia che fuori, ma non solo. Gli androidi Type-X, oltre ad essere personalizzabili proprio come gli avatar, sono infatti capaci di provare emozioni e hanno un loro carattere, due aspetti che hanno un chiaro impatto sull’esperienza di gioco. Nel corso dell’evento il protagonista si imbatte inoltre in Kirito e Asuna, che presenteranno al giocatore alcuni dei guerrieri più forti presenti in GGO. Il nuovo arrivato scopre così l’esistenza di un’area di alto livello situata dentro un’astronave misteriosa, la SBC Flügel, e che proprio la sua unità Type-X sembra potergli garantire l’accesso, ma solo dopo che avrà recuperato il 100% delle sue funzionalità grazie ad alcuni moduli sparsi per le varie aree del gioco. E’ da qui che prende il via la trama di Sword Art Online: Fatal Bullet, che vede il giocatore impegnato ad esplorare varie porzioni di questo mondo virtuale fatto di lande desolate, città in rovina, foreste, pericolosi dungeon e molto altro ancora. Ovviamente la ricerca dei moduli rappresenta solo l’incipit di una sceneggiatura più articolata, che si dipana per circa 25/30h alternando le sessioni di combattimento a numerosi dialoghi e rare sequenze filmate con protagonisti molti dei personaggi più famosi visti nel manga e nell’anime.

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MX Video – Sword Art Online: Fatal Bullet

Come detto in apertura Sword Art Online: Fatal Bullet è un ibrido TPS/RPG e, come tale, mescola elementi provenienti da entrambi i generi. La progressione del gioco si basa sul completamento delle missioni principali, alle quali si affiancano quelle secondarie e gli incarichi opzionali, che includono battute di caccia, ricerche di tesori e l’annientamento di nemici unici . Le prime vengono affidate al giocatore dai personaggi chiave della vicenda mentre le restanti possono essere accettate parlando con alcuni NPC presenti nel complesso residenziale, dove risiedono sia il protagonista che Kirito e la sua gilda, o utilizzando il database presente nell’ufficio del governatore della SBC Glocken. Per poter portare a termine le varie quest il protagonista e tre suoi compagni, scelti tra le fila della gilda di Kirito, devono esplorare le ambientazioni e i dungeon presenti nel gioco eliminando senza pietà i nemici che si troveranno davanti, siano essi creature spaventose, spietati automi o altri giocatori in cerca di gloria controllati dalla CPU. Le tipologie di avversari da abbattere per completare i vari obiettivi, come ormai consuetudine in giochi simili, includono nemici standard, avversari unici e veri e propri boss, generalmente localizzati alla fine dei dungeon.

Per onorare al meglio gli incarichi, il giocatore può attingere da un nutrito arsenale di armi di varia natura, che spaziano dalle classiche pistole a devastanti lanciarazzi, passando per fucili automatici, mitra e anche qualche spada (in fondo siamo pur sempre nel mondo si SAO), ognuna dotata delle proprie caratteristiche e del proprio livello di rarità. Come da tradizione del genere le armi, che possono essere acquistate nei negozi o recuperate sul terreno di battaglia, vengono generate casualmente e questo fa si che difficilmente ci si possa trovare tra le mani due oggetti identici, anzi, a volte capita addirittura di imbattersi in parti non identificate che, in modo molto simile a quanto accade in Destiny, devono essere decrittate a pagamento da uno specifico NPC. Grazie alle capacità di Lisbeth tutte queste armi possono essere potenziate, utilizzando i materiali raccolti durante l’esplorazione, o modificate, “fondendo” insieme due oggetti così da miscelare bonus e malus. Più o meno simile la gestione di armature ed accessori, che a differenza delle armi non possono però essere modificati. Il giocatore può inoltre commissionare nuovi costumi ad Asuna dopo aver recuperato le istruzioni e i materiali necessari a produrli. A concludere l’offerta ci pensano poi i gadget, degli utili strumenti di supporto acquistabili nei negozi tra i quali trovano spazio i classici medikit, granate di varia natura, armi da lancio e mine.

Abbattendo nemici e completando missioni il protagonista e i suoi alleati ottengono dei crediti, spendibili per acquistare armi, munizioni e potenziamenti, ma anche preziosi punti ESP, che consentono ai protagonisti di salire di livello con un sistema abbastanza lineare. Ad ogni step il giocatore e la sua unità ArFA-sys ottengono punti progresso e punti abilità, utilizzabili rispettivamente per incrementare una o più delle 6 statistiche presenti, il cui valore influenza la classe del personaggio, le sue caratteristiche e la sua capacità di utilizzare un certo tipo di arma, o per sbloccare nuove abilità, che possono poi essere equipaggiate ed utilizzate durante gli scontri. Qui troviamo una delle particolarità presenti in Sword Art Online: Fatal Bullet. L’inventario delle abilità non è infatti unico ma è legato alla classe dell’arma equipaggiata, il che significa non solo che nel gioco esistono power-up specifici per uno o più tipi di arma ma che è necessario organizzare un set di abilità per ogni categoria di equipaggiamento, così da non trovarsi impreparati sul campo di battaglia. In base alle proprie prestazioni il giocatore ottiene inoltre delle medaglie, che possono poi essere scambiate con oggetti e materie prime recandosi da uno specifico venditore. Come se non bastasse il protagonista può decidere di affidare una parte più o meno consistente dei suoi guadagni alla sua unità ArFA-sys, sia a scopo di investimento sia come una vera e propria “paghetta” per i servizi offerti. Nel primo caso il giocatore ottiene degli interessi sulle somme depositate mentre affidando i risparmi al suo androide di fiducia e spingendolo a fare shopping il protagonista può ottenere nuovi oggetti, talvolta anche molto rari.

Pad alla mano Sword Art Online: Fatal Bullet si è rivelato immediato e frenetico. Il sistema di controllo ricalca in buona parte quello dei classici sparatutto in terza persona e la presenza di un sistema di mira semi-automatico, dotato anche di una modalità assistita, permette agli scontri di mantenere quasi sempre un ritmo serrato che si sposa bene con il genere in questione. La gestione delle abilità e dei gadget è affidata al uso combinato dei tasti dorsali e dei tasti frontali, così da non interrompere mai l’azione per più di qualche istante mentre tramite il tasto opzioni è possibile accedere ad un menu che consente di impartire ordini basilari ai propri alleati. L’arsenale a disposizione del protagonista include anche l’UFG, una sorta di rampino utilizzabile per raggiungere aree sopraelevate, per muoversi rapidamente da un punto ad un altro o per attivare alcuni interruttori. Anche lo svolgimento delle missioni si è rivelato abbastanza lineare. Una volta raggiunta una delle aree presenti l’unico obiettivo del giocatore è quello di avanzare verso la propria destinazione abbattendo nel frattempo i nemici che il mondo di GGO fa apparire dinamicamente davanti a lui. A compensare questa apparente semplicità ci pensano fortunatamente la caratteristiche dei nemici, estremamente variabili, e la gestione dell’equipaggiamento, che deve necessariamente adattarsi alle varie sfide proposte. Proprio per questo motivo il gioco di Dimps permette di salvare fino a 5 configurazioni di inventario e abilità, che possono essere richiamate rapidamente tornando nel proprio alloggio così da essere pronti ad ogni evenienza. Spesso capita inoltre di incontrare mostri (o gruppi di mostri) al di là delle nostre capacità e di dover quindi investire un po’ di tempo a “grindare” sul campo di battaglia per salire di livello o a “farmare” oggetti e materie prime così da aumentare di livello e migliorare il proprio equipaggiamento prima di proseguire, sfruttando se possibile uno dei numerosi punti di viaggio veloce sparsi un po’ ovunque nel gioco per non dover ripetere all’infinito gli stessi percorsi.

Tramite l’ufficio del governatore, posizionato nella parte più elevata della SBC Glocken e che funge da HUB centrale per quasi tutte le attività presenti in Sword Art Online: Fatal Bullet, il giocatore può inoltre accedere alle funzionalità online del titolo, per fare squadra con un massimo di altri 3 giocatori ed affrontare in coop i boss già incontrati nella modalità storia o cimentarsi in sfide PVP libere o classificate, alle quali possono prendere parte un massimo di 8 giocatori. Completando le sfide coop si ottengono materiali pregiati, utilizzabili nella modalità in singolo, mentre le competizioni PVP, che prevedono due tipologie di partite differenti denominate Avatar ed Eroe, vedono i giocatori sfidare i boss con l’obiettivo di ottenere più punti degli altri partecipanti. L’unica differenza tra le due tipologie di sfida PVP riguarda i personaggi utilizzabili. Nelle competizioni Avatar il giocatore partecipa utilizzando lo stesso alter-ego utilizzato nella modalità in singolo, con tutte le sue abilità e il suo equipaggiamento, mentre in quelle Eroe si utilizzano i personaggi più famosi della saga come Kirito, Asuna, Itsuki e Zeliska, ognuno dei quali prevede un proprio percorso di crescita e un proprio set di abilità.

Per riprodurre al meglio l’ambientazione di Sword Art Online: Fatal Bullet il team di sviluppo si è affidato all’Unreal Engine 4, che consente a questo nuovo capitolo di ricreare in modo fedele il mondo post-apocalittico di GGO con la tecnica del cel-shading e di raggiungere una risoluzione Full HD a 60 fps. Nella norma il comparto audio, che alterna motivetti orecchiabili a musiche techno di buona qualità. I puristi saranno infine saranno contenti di sapere che anche la versione italiana mantiene inalterato il doppiaggio originale, accompagnato da una traduzione completa nella nostra lingua di dialoghi e menu di gioco.

Amore

Uno shooter frenetico

– Seleziona una missione. Entra nell’area. Spara a tutto quello che si muove senza sosta fino alla vittoria o, se proprio non puoi vincere, fino a quando non inizi a perdere sensibilità alle falangi. Volendo essere estremamente sintetici, il gameplay di Sword Art Online: Fatal Bullet si potrebbe riassumere così ed è proprio questo a rendere il titolo di Dimps diverso dai suoi predecessori ed al contempo dannatamente intrigante. In GGO per sopravvivere bisogna sparare, tanto e bene, e questo concetto si sposa alla grande con le meccaniche degli sparatutto in terza persona inserite in questo capitolo. La presenza di un’ampia selezione di bocche di fuoco differenti e di un numero infinito di avversari sui quali riversare le proprie scorte di proiettili garantisce tante ore di sano divertimento e permette a titolo di Dimps di risultare interessante anche per chi non conosce a menadito la serie originale.

Impegnativo

Sword Art Online: Fatal Bullet, nonostante le apparenze, non è un titolo semplice o alla portata di tutti. La curva di difficoltà non è particolarmente ostica ma il gioco, per sua stessa natura, impone al giocatore di spendere buona parte del tempo a far crescere i personaggi e a perfezionare il loro equipaggiamento. Affrontare una missione con un grado inferiore a quello previsto o con un armamentario inadeguato porta quasi sempre ad una sonora sconfitta, ma è proprio questa caratteristica a rendere davvero appassionante il titolo di Dimps. Non basta andare avanti a testa bassa. Bisogna fare tesoro di ogni sconfitta, capire come affrontare al meglio gli avversari e tenere sempre alta la concentrazione, soprattutto nelle fasi avanzate. Ogni tanto il gioco mette a dura prova la pazienza del giocatore (anche a causa di una I.A. non troppo brillante) ma senza mai risultare snervante, anzi. Ogni sconfitta è uno stimolo a provare nuovi equipaggiamenti e nuove strategie, il che si traduce inevitabilmente in una sensazione di sfida sana ed appagante.

Molti spunti interessanti…

Sword Art Online: Fatal Bullet miscela in un unico prodotto elementi provenienti da numerosi generi differenti quali gli sparatutto in terza persona, gli RPG, gli MMO e anche un pizzico di quei simulatori di appuntamento tanto apprezzati in Giappone. Ecco quindi che il giocatore si trova a dover sopravvivere a furiosi scontri a fuoco, superare dungeon ed abbattere boss, a dover continuamente evolvere il proprio equipaggiamento e le proprie statistiche ma anche a gestire ed approfondire i rapporti personali con gli altri personaggi o a dover decidere quanti soldi affidare alla propria unità ArFA-Sys e quale taglio di capelli farle utilizzare. E’ raro che un titolo del genere misceli così tanti aspetti in un’unica soluzione, e questo rende il gioco vario ed apprezzabile per una fetta di pubblico più ampia.

Odio

…ma pochi davvero approfonditi

– Quantità non sempre fa rima con qualità e Sword Art Online: Fatal Bullet, purtroppo, conferma questa affermazione. Nonostante una notevole varietà di contenuti, il titolo sviluppato da Dimps mette innegabilmente in mostra una fastidiosa superficialità che permea praticamente ogni aspetto. Il sistema di controllo non è perfetto, lo sviluppo dei personaggi è fin troppo lineare, le abilità presenti non permettono in alcun modo di caratterizzare a dovere il proprio alter-ego, la gestione e lo sviluppo dell’equipaggiamento appaiono poco ispirati, la componente online non brilla per originalità e lo stesso si può dire di quasi tutti gli altri elementi, compresa la gestione delle finanze e il modo con cui vengono gestiti i rapporti personali tra i vari protagonisti. Un difetto che purtroppo penalizza sensibilmente l’esperienza di gioco e che ne ridimensiona di conseguenza le potenzialità.

I.A.

– Durante la mia prova sia gli avversari che i miei compagni hanno più volte messo in mostra enormi difficoltà nella gestione degli scontri a fuoco, sia in fase offensiva che difensiva. Personaggi che rimangono incastrati nelle coperture, nemici che restano immobili anche quando li stiamo letteralmente crivellando di proiettili, alleati che invece di curarci eseguono continue manovre evasive finendo per causare un’inevitabile sconfitta, sono solo alcune delle fastidiose situazioni nelle quali mi sono imbattuto nelle numerosi sessioni di gioco. Un difetto non da poco in un titolo che basa molto sul tasso di sfida e sulla cooperazione con i propri alleati.

Introduzione infinita

– Per quanto possa sembrare incredibile, una delle parti più ostiche di Sword Art Online: Fatal Bullet è quella iniziale, ma non a causa della difficoltà. La sfida è quella di superare senza cadere in un sonno profondo l’ora e mezza di interminabili dialoghi e brevi sparatorie che separa la fase di creazione del personaggio dal gioco vero e propri. Per fortuna, una volta superata questa fase, i ritmi di gioco diventano più umani, ma sono sicuro che con un minimo di sforzo in più il team di sviluppo avrebbe potuto rendere le ore iniziali meno verbose così da non “spaventare” i giocatori.

Trama insipida

– Nonostante le buone premesse, la sceneggiatura di Sword Art Online: Fatal Bullet non mi ha soddisfatto. I pochi spunti interessanti vengono inevitabilmente affossati dai continui clichè e da un inspiegabile abuso di dialoghi e scenette statiche fini a sé stesse. Solo in rarissime occasioni gli sviluppatori di Dimps hanno sfruttato le vicissitudini dei vari protagonisti per proporre degli incarichi extra, ma per il resto del tempo chi impugna il pad si ritrova a fare lo spettatore passivo di situazioni che, tra l’altro, non vengono nemmeno mostrate tramite filmati ma semplicemente raccontate dai vari personaggi. Nemmeno l’introduzione della “modalità Kirito” e del torneo “Bullet of Bullets”, entrambi sbloccabili nelle fasi avanzate del gioco, permette alla sceneggiatura di risollevarsi così da diventare interessante anche per i fan meno maniacali della serie.

Tecnicamente migliorabile

– Sebbene l’introduzione di un nuovo engine grafico consenta a Sword Art Online: Fatal Bullet di sfoggiare modelli poligonali più dettagliati ed animazioni decisamente più fluide rispetto al passato, il titolo di Dimps soffre purtroppo di un difetto che sembra accomunare gli ultimi titoli pubblicati da Bandai Namco e si presenta ai giocatori con un comparto tecnico nel complesso abbastanza deludente. Nonostante il gioco si appoggi ad uno dei motori grafici più potenti e versatili attualmente in circolazione, il mondo di GGO appare infatti poco dettagliato e privo di guizzi stilistici capaci di catturare l’attenzione del giocatore. Le aree all’aperto sono povere (per non dire deserte) e i dungeon si limitano a proporre una serie di stanze simili collegate tra loro da corridoi essenziali e con pochi elementi distintivi. Nonostante ciò il titolo non è esente da vistosi cali di frame-rate e da fastidiose compenetrazioni, due difetti che con molta probabilità si sarebbero potuti tranquillamente evitare vista la qualità grafica non eccelsa della produzione.

Tiriamo le somme

Sword Art Online: Fatal Bullet è uno sparatutto frenetico ricco di spunti interessanti e che rappresenta sicuramente un passo in avanti per la serie di videogiochi dedicati a SAO ma che, a causa di alcuni difetti più o meno marcati e di una realizzazione tecnica poco curata, non riesce comunque a convincere appieno. La giocabilità frenetica e l’apparente varietà si scontrano infatti con una trama non all’altezza e una mancanza di profondità che rendono il titolo di Dimps consigliato solo per gli amanti della saga o per i giocatori in cerca di uno shooter impegnativo, disposti a chiudere un occhio di fronte a queste problematiche. 6.8 MondoXbox.com

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Recensione – Kingdom Come: Deliverance

copertina

Dopo una campagna Kickstarter di successo e l’adozione del progetto da parte di Deep Silver, i cechi Warhorse Studios rilasciano finalmente Kingdom Come: Deliverance, GDR ad ambientazione medievale con una grande attenzione al realismo ed alla veridicità storica. Dopo averlo provato a fondo siamo pronti per dirvi cosa ne pensiamo!

Il Gioco

Europa, basso medioevo: epoca di grandi trambusti e cambiamenti importanti. Alla morte di Carlo IV di Lussemburgo, stimato Re celebre per le sue doti diplomatiche grazie alle quali questa regione visse un lungo periodo di pace e prosperità economica, successe al trono il figlio, Venceslao IV, che a differenza del padre mancava completamente della predisposizione a governare, rivelandosi più incline ad una vita dissoluta mirata al soddisfacimento degli istinti più bassi, fatta di banchetti, alcool e cortigiane. Il completo disinteresse per le attività della corona da parte del nuovo Re creò ben presto del malcontento, che sfociò in breve in un’aperta rivolta contro il regnante capeggiata dal fratellastro di Venceslao, Sigmondo di Lussemburgo, spalleggiato da numerosi nobili Boemi.

In questo turbolento quadro troviamo Henry, il protagonista di Kingdom Come: Deliverance che vive come aiutante del padre, abile fabbro nel villaggio di Skalica. Henry è molto giovane e, sebbene palesi sin dalle prime battute un forte desiderio di avventura e la voglia di girare il mondo, nella realtà dei fatti non si è mai allontanato dal suo villaggio natale, e la sua conoscenza del mondo circostante e degli usi al di fuori della sua piccola cerchia di conoscenze è molto limitata, cosa tipica per quell’epoca. Tutto questo è destinato a cambiare drammaticamente a causa degli intrighi politici di cui Henry stesso è inizialmente ignaro.

Avrete sicuramente capito da questa brevissima introduzione che in Kingdom Come: Deliverance vestiremo i panni di un protagonista predefinito, fortemente caratterizzato anche per ciò che ne concerne i tratti comportamentali, e non avremo modo di creare il nostro alter ego digitale; gli sviluppatori di Warhorse hanno quindi deciso di raccontare la storia di uno specifico personaggio, come visto anche nella serie di The Witcher, piuttosto che farci creare e plasmare il nostro eroe come nella serie Elder Scrolls, da cui Kingdom Come: Deliverance mutua però la visuale in prima persona. Non parliamo comunque di un personaggio statico dall’inizio alla fine: nel corso del gioco Henry subirà uno sviluppo sia delle abilità che caratteriale come risultato delle nostre scelte e del nostro stile di gioco.

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MX Video – Kingdom Come: Deliverance

Come dicevamo, la tranquilla vita di Henry è destinata a cambiare radicalmente, cosa che non tarderà molto ad accadere: il suo desiderio di girare per le lande boeme sarà infatti presto stato soddisfatto, anche se non nella maniera in cui lui avrebbe sperato. In un soleggiato mattino, infatti, le truppe mercenarie di Venceslao appaiono improvvisamente all’orizzonte marciando sul villaggio di Skalica, superandone facilmente le deboli fortificazioni e saccheggiando, bruciando e passando a filo di spada gli inermi paesani, lasciandosi andare ad ogni genere di violenza. Gli stessi genitori di Henry finiscono vittime degli invasori, mentre il nostro eroe riesce miracolosamente a salvarsi dopo una rocambolesca fuga a cavallo, determinato a vendicare la morte dei suoi genitori. Da qui in poi inizia l’avventura vera e propria, con la possibilità di esplorare liberamente e senza soluzione di continuità (non vi sono caricamenti all’ingresso dei vari insediamenti) il vasto mondo di gioco.

Le ambientazioni paiono sin dai primi istanti di gioco molto eterogenee tra loro e spaziano da fitte foreste a piane lussureggianti, passando per zone collinari e montuose oltre ovviamente ad insediamenti urbani più o meno sviluppati. Il colpo d’occhio è decisamente positivo: il campo visivo è molto profondo e le ambientazioni vantano una realizzazione davvero accurata. E’ davvero una gioia per gli occhi esplorare le location e constatare con quanta cura siano state modellate. Numerosissime le botteghe artigiane che possiamo visitare nel corso del nostro peregrinare, ognuna con la propria specifica offerta in termini di beni, che siano generi alimentari, erbe curative, alcolici, abbigliamento o armamenti più o meno pesanti. Le numerose missioni, principali o secondarie che siano, possono nella maggior parte dei casi essere approcciate in maniera diversa in base al nostro stile di gioco ed in base alle caratteristiche predominanti che abbiamo fatto ottenere ad Henry, permettendoci così di ricorrere alla forza bruta, piuttosto che alle nostre abilità furtive o, ancora, alla nostra dialettica e all’ascendente che esercitiamo sul prossimo.

Il tratto distintivo di Kingdom Come: Deliverance risiede nel gran realismo su cui si è voluto porre l’accento, sia grazie ad un’attenta riproduzione storica dell’epoca, sia per quanto riguarda le meccaniche di gioco vere e proprie come la gestione della fame e del sonno, della resistenza, delle ferite e delle interazioni sociali, fattore questo che distingue Kingdom Come: Deliverance dagli altri GDR in circolazione.

Amore

A spasso nel tempo

– Se c’è un aspetto di Kingdom Come: Deliverance che è riuscito dannatamente bene a Warhorse Studios, è darci la sensazione di vivere in un’altra epoca storica. Ogni aspetto e dettaglio in Kingdom Come: Deliverance è curato in maniera certosina, quasi maniacale: durante i nostri vagabondaggi nelle terre mitteleuropee è davvero impossibile non apprezzare con quanto realismo e dettaglio il tutto sia stato confezionato, sia che ci si trovi a passeggiare in qualche insediamento fortemente popolato, ove potremo apprezzare il viavai di gente intenta a svolgere le mansioni tipiche della quotidianità, sia passeggiando in solitaria in pianure o fitte foreste, dove non sono rari gli incontri con la fauna locale peraltro liberamente cacciabile. Ottima la riproduzione di ogni edificio presente nel gioco, sia quelli più importanti, come possono essere gli imponenti castelli, ma anche per quanto riguarda le strutture minori, quali ad esempio le concerie, riprodotte in maniera eccellente con i vari canali di scolo dei liquami di lavorazione, i cavalletti per le pelli e tutto il necessario per le lavorazioni del caso, o anche i bagni, aventi spesso la funzione anche di bordello, mulini, segherie, miniere e così via. E al calare della notte tutto cambia: le strade si fanno deserte, le botteghe chiudono, solo qualche taverna rimane aperta ad ospitare i viandanti o i popolani in cerca di svago e soprattutto il motore di gioco mostra il suo ottimo sistema di illuminazione, accendendo luci e falò che conferiscono ulteriore fascino agli ambienti.

Realismo spinto

– La ricerca del realismo in Kingdom Come: Deliverance non tocca solo le ambientazioni, ma anche il gameplay. Alcune dinamiche di gioco in Kingdom Come: Deliverance possono addirittura ricordare un survival: il giocatore infatti deve porre attenzione a diversi aspetti, che se sottovalutati potrebbero portare ad una prematura dipartita del povero Henry. Con il trascorrere del tempo il nostro alter ego verrà colto dai morsi della fame, e sarà fondamentale riuscire a nutrirsi adeguatamente, pena l’insorgere di status alterati e, nei casi più gravi, la morte. Per contro, però, l’idea di abbuffarsi oltremisura per creare una sorta di “scorta calorica” potrebbe non essere l’idea migliore, in quanto gli effetti di un’indigestione sono altrettanto dannosi e si potrebbero protrarre per diverse ore o anche giorni. Stesso discorso vale per il sonno: marciare e combattere per giorni senza mai fermarsi a dormire provocherà cali di concentrazione che influenzano sia l’abilità in combattimento che la capacità comunicativa, limitando molto le interazioni con le altre persone. Riposare in un letto consente inoltre il salvataggio, possibile altrimenti unicamente consumando la “grappa del salvatore” che ha però i malus legati al consumo di alcool. Altro esempio dello spiccato realismo del gioco è costituito dalle ferite riportate, che oltre a limitarci nelle azioni (ad esempio quelle alle gambe limitano i nostri movimenti, mentre quelle alle braccia inibiscono l’uso di determinate armi) possono aggravarsi e provocare sanguinamento, curabile solo qualora si sia sviluppata l’abilità di primo soccorso.

Esperienza e abilità

– Come in ogni GDR che si rispetti, anche Kingdom Come: Deliverance lega la crescita del protagonista ad una serie di abilità e tratti distintivi, ed anche sotto questo punto di vista gli sviluppatori non ci sono andati leggeri con il dettaglio. Le abilità che Henry può sviluppare sono divise in una lista quasi enciclopedica, e gli status che alcune di esse possono conferire sono assolutamente originali, come nel caso del perk “vero slavo” grazie al quale il nostro protagonista sviluppa una forte tolleranza al consumo di alcolici, accrescendone i valori positivi (loquacità e resistenza) ed annullando gli status alterati relativi (il dopo-sbornia del giorno successivo, che in genere vede ridotte le nostre capacità). Le abilità sono poi talvolta concatenate tra loro in maniera insolita: sono rimasto ad esempio stupito del fatto che, aumentando di parecchio il livello “esperto di erbe”, anche la mia forza abbia subito un aumento, giustificato dal fatto che il continuo piegarmi a raccogliere arbusti abbia fortificato la muscolatura delle gambe. L’esperienza aumenta con l’utilizzo frequente di una determinata abilità, permettendo uno sviluppo correlato al diverso stile di gioco di ciascun gamer.

L’arte della dialettica

– Menzione speciale va alle interazioni con i personaggi tramite i dialoghi, che sono influenzati oltre che dal nostro livello di dialettica anche da altri fattori come il vestiario (una tenuta elegante ha più ascendente su un poveraccio), l’armamento equipaggiato (che può mettere in soggezione il nostro interlocutore) e a volte anche dalla “pulizia” del protagonista (per qualche motivo alcune donne nel medioevo erano attratte dall’uomo zozzo). Non esiste un valore universale da accrescere per aver successo nell’arte della persuasione, perché questi fattori variando in base all’interlocutore: davvero una bella pensata.

Arte bellica

– In Kingdom Come: Deliverance non si combatte tantissimo, o meglio, non è l’aspetto predominante del gioco. Durante l’avventura capiterà comunque di dover incrociare la spada (o la mazza, o l’ascia, l’elenco di armi ed armature è molto vasto) con svariati avversari, ed in queste fasi è possibile apprezzare il sistema di combattimento confezionato per l’occasione da Warhorse. Dimenticatevi il button smashing: anche gli scontri sono caratterizzati da una buona dose di realismo. Anzitutto è possibile indirizzare i colpi in una direzione ben precisa, andando a mirare a specifiche parti del corpo con fendenti o affondi al corpo. Allo stesso modo è importante intuire la direzione dell’attacco per interdirlo adeguatamente. Oltre a ciò è fondamentale tenere sotto controllo la barra della resistenza, che si consuma progressivamente durante lo scontro; restare senza fiato nel mezzo di una lotta non è certo un’eventualità da trascurare. Naturalmente anche i combattimenti sono influenzati dalle statistiche e dall’esperienza del nostro personaggio, che si sviluppano e crescono anch’esse con l’uso costante, e dalla qualità dell’equipaggiamento indossato. Anche gli archi richiedono una certa destrezza da parte del giocatore per essere branditi, ed ai livelli più bassi di esperienza centrare un bersaglio è un’impresa non di poco conto. Un sistema inizialmente ostico da padroneggiare, ma alla lunga decisamente soddisfacente.

Quando un videogioco diventa educativo

Kingdom Come: Deliverance, in maniera forse collaterale, riesce a compiere un piccolo prodigio che è raro attribuire ad un videogame, quello di approfondire con molta precisione moltissime dinamiche di vita quotidiana, illustrare le dinamiche sociali in essere all’epoca, lo sviluppo di arti e mestieri, insomma di insegnare qualcosa. Il codex in tal senso risulta uno strumento utilissimo, in quanto raccoglie tutte queste informazioni e ne permette la fruizione in qualsiasi momento si desideri, come una sorta di wikipedia. Non sarà forse un’ aspetto fondamentale nell’autonomia di gioco, ma l’interesse che riesce a suscitare nel giocatore merita indubbiamente una menzione. E la localizzazione in italiano di tutti i testi e sottotitoli (mentre il parlato rimane in inglese) è sicuramente d’aiuto al proposito.

Odio

Il mio regno per una patch

– Che la perfezione non faccia parte di questo mondo è cosa nota, ma è anche vero che esistono diverse “sfumature di imperfezione” più o meno tollerabili, e purtroppo Kingdom Come: Deliverance è afflitto da una serie di problematiche molto, molto fastidiose ed evidenti, tanto da farmi sperare, forse per la prima volta nella mia vita di videogiocatore, nell’urgentissimo rilascio di una patch. La magia che la talentuosa software house è riuscita a creare, l’immersività del mondo di gioco e il gran fascino del periodo storico ove le vicende si svolgono, sono tutti aspetti minati fortemente in primis da un frame-rate assolutamente incostante, che registra cali eclatanti nelle zone più dense di attività (più di una volta mi sono imbattuto in veri e propri freeze di diversi secondi), ma che non riesce a mantenersi particolarmente fluido neppure in momenti esplorativi, sicuramente meno concitati. Oltre a questo fastidiosissimo problema, è presente anche un fenomeno di pop-up molto pesante che vede non solo comparire dal nulla poligoni e texture, ma addirittura parti di equipaggiamento di alcuni personaggi, come cappelli o armamenti che appaiono magicamente sui modelli raggiunta una certa distanza. E dulcis in fundo, il titolo non ci fa mancare neanche bug che addirittura impediscono lo svolgimento o la conclusione di alcune missioni secondarie. Warhorse vi prego, sistemate il tutto in fretta e fate entrare la vostra opera nell’olimpo videoludico!

Il crimine non paga

– Mai affermazione fu più vera: la carriera di criminale è quanto di più difficoltoso si possa intraprendere in Kingdom Come: Deliverance, non tanto per l’intelligenza di guardie o cittadini quanto perché i minigiochi legati al borseggio e soprattutto quelli legati alla forzatura delle serrature sono dannatamente difficili. Già le serrature di livello facile danno tantissimo filo da torcere, tanto che sarò riuscito a sbloccarne giusto un paio, ma vi lascio immaginare cosa possano essere quelle di livello superiore. Considerato il fatto che le genti boeme sembrano avere la più che giustificata abitudine di tenere sotto chiave i loro averi e che gli scrigni sono nel 90% dei casi tutti bloccati, capirete quanto possa essere frustrante non riuscire ad aprirne manco mezzo. Una “livellata” verso il basso a questa dinamica verrebbe accolta più che favorevolmente.

Tiriamo le somme

Kingdom Come: Deliverance rivela essere un RPG assolutamente immersivo ed appagante, che farà sicuramente la gioia degli amanti del genere grazie ad un’ambientazione davvero affascinante, ad un combat system profondo, ad un marcato realismo e ad una marea di abilità diverse grazie alle quali far crescere Il nostro personaggio. Un vero peccato che questo sia in parte offuscato da alcuni fastidiosissimi bug e soprattutto da un frame-rate a volte davvero inaccettabile; da appassionato del genere e delle ambientazioni medievali ho ritenuto comunque queste mancanze tollerabili di fronte a quanto di buono il gioco ci propone. Se anche voi siete appassionati di GDR e dell’epoca storica ritratta dal titolo di Warhorse, si tratta di un gioco sicuramente consigliato anche se vi sarà richiesta un po’ di tolleranza sul fronte tecnico, almeno fino alle necessarie patch. 8.5 MondoXbox.com

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Recensione – Past Cure

L’opera prima del team berlinese Phantom 8 Studio, Past Cure, ha finalmente debuttato sulle nostre console con la promessa di un’esperienza narrativa intrisa di azione, thriller e poteri sovrannaturali. Sarà riuscito un titolo indipendente tanto ambizioso e interessante a catturarci? Scopriamolo insieme!

Il Gioco

Sono passati due anni da quando, con una discreta dose di emozione, lo sparuto manipolo di ragazzi provenienti da Germania, Inghilterra, Romania, Belgio, Turchia e Russia noto come lo studio Phantom 8, annunciò al mondo di essere all’opera sul loro primo videogioco. L’annuncio della loro opera prima, Past Cure, si rivelò un vero fulmine a ciel sereno: un action-shooter in terza persona con una trama intricata da thriller psicologico, condita d’azione e poteri sovrannaturali. I primi teaser mostravano un protagonista tormentato in preda a visioni aberranti: un personaggio palesemente ispirato al buon vecchio Max Payne, che nel suo sgualcito completo scuro si aggirava nei labirinti della sua mente in preda a rabbia e dolore. Past Cure, infatti, rappresenta proprio un omaggio a quell’immaginario, condito da diverse citazioni di film, serie TV e ovviamente illustri videogiochi.

Nel titolo prendiamo il controllo di Ian, ex marine pluridecorato in preda ad un incubo ambientato in un caseggiato in rovina, in cui l’arredamento è completamente sottosopra. Dalla disillusa voce-pensiero di Ian apprenderemo presto che questi spiacevoli viaggi onirici non sono nuovi, e che negli ultimi tempi stanno intensificando la loro crudeltà. Dopo aver esplorato la magione semidistrutta, infatti, scopriamo di essere braccati da alcuni manichini di porcellana dal fisico scultoreo e dall’aspetto inquietante. Inizia così una sorta di tiro al bersaglio, grazie al fortuito ritrovamento di una pistola, che ci condurrà verso la fine dell’incubo. Ian si risveglia di soprassalto in una ben più soleggiata e lussuosa villa in riva al mare, che scopriremo appartenere a suo fratello Markus, con il quale parleremo al telefono da lì a poco. Oltre alla loro parentela, Ian e Markus sono legati a doppio filo anche dalla carriera nei marines, che li ha visti prendere parte a svariate missioni tra cui l’ultima in Siria, in cui Ian è stato rapito e segregato per tre anni: di questo periodo di prigionia non ha nessun ricordo, e gli incubi ricorrenti con i manichini e le visioni che lo tormentano costantemente sono l’unico atroce lascito della sua permanenza presso il gruppo di aguzzini sconosciuti che lo hanno rapito, riducendolo a un malato di mente dipendente da particolari psicofarmaci illegali.

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MX Video – Past Cure

Decisi a far luce sulla vicenda e a stanare i rapitori, Ian e suo fratello hanno messo in piedi una personale crociata atta a rintracciare il gruppo criminale, forti delle loro conoscenze e dotazioni in campo militare. Sarà infatti proprio Markus a comunicarci di aver rintracciato un grosso spacciatore delle pillole di cui Ian è dipendente, che a quanto pare alloggia ben protetto in un albergo di lusso in città. Prima di iniziare però la nostra prima missione di gioco, visiteremo nuovamente il mondo onirico di Ian, trovandoci stavolta in un ambiente asettico sospeso su piattaforme in cui potremo dare sfogo alle capacità extrasensoriali del protagonista attraverso quello che si rivelerà un lungo (decisamente lungo) tutorial in cui esercitarci con la telecinesi e il bullet-time, entrambe abilità richiamabili attraverso la pressione dei tasti dorsali superiori del pad. Grazie alla telecinesi Ian può proiettare il suo corpo astrale per manovrare meccanismi altrimenti irraggiungibili, mentre con la sua capacità di rallentare il tempo può sgattaiolare velocemente tra i nemici, anche in questo caso manichini, o prendere la mira e sparare con più precisione. Entrambe le abilità sono però soggette al consumo di energia, che potremo riempire assumendo gli psicofarmaci che riusciremo a trovare.

Dopo questa fase onirica/tutorial, Past Cure ci propone finalmente la prima missione, in cui Ian dovrà mettersi sulle tracce dello spacciatore. Iniziamo dal garage dell’albergo di lusso in cui questo alloggia, infiltrandoci tra i condotti di ventilazione e sgattaiolando inosservati tra i numerosi scagnozzi che pattugliano ogni piano dell’edificio. Durante questa fase l’approccio stealth è la nostra migliore strategia, unita ovviamente alla padronanza dei poteri speciali del protagonista che ci permetteranno di neutralizzare i cattivi e disattivare telecamere di sorveglianza. Non mancheranno anche svariate scene sparacchine e i momenti in cui saremo invece costretti a menare le mani per avere salva la vita. Inutile dire che, nelle dieci ore complessive di durata del titolo, gli incubi torneranno a farci visita, così come le visioni ad occhi aperti di Ian, che infittiranno non poco la trama e ci costringeranno ad una lunga sequenza ai limiti del survival-horror ambientata all’interno di un istituto psichiatrico di massima sicurezza chiaramente ispirato all’immaginario di Silent Hill.

Tutto bello, penserete voi. E invece no, purtroppo. Proprio per niente, perché Past Cure è un titolo che fa praticamente acqua da tutte le parti. A cominciare dal comparto narrativo a dir poco astruso, che propone una successione di avvenimenti sconnessi tra loro, passando ai poteri soprannaturali del protagonista e fino ad arrivare a sequenze di gioco che tediano il giocatore. Come se non bastasse, ci si mette anche un comparto tecnico che, nonostante offra un’innegabile pulizia dell’immagine e una buona realizzazione delle superfici, alterna su schermo modelli poligonali tecnologicamente arretrati, appartenenti a due generazioni fa, con movimenti legnosi e la quasi totale assenza di animazioni di raccordo durante le rarissime interazioni con lo scenario. Da dimenticare anche l’impreciso impianto di gunplay e la meccanica di combattimento a mani nude basata sui quick-time-events, tanto abbozzata da sembrare imbarazzante per un titolo uscito nel 2018. A metterci il carico da dodici c’è anche il doppiaggio in inglese del protagonista, di fattura poco più che amatoriale e realizzato in maniera fredda e senza la minima emozione.

A questo punto vi starete chiedendo se è almeno sottotitolato in italiano? Fortunatamente sì, ma anche qui non mancano i problemi. Il gioco è infatti afflitto da un fastidioso bug che vede i sottotitoli commutano automaticamente all’inglese mentre giochiamo, oppure scompaiono del tutto riapparendo qualche minuto più tardi, chiaramente non più sincronizzati ai personaggi che parlano su schermo. E come non citare i crash? Anche dal punto di vista della stabilità del codice, Past Cure scopre il suo fianco, bloccandosi spesso e tornando alla dashboard della console, costringendoci a riavviare il gioco e la partita e magari a ripetere intere tediose sezioni per via dell’incoerente pianificazione dei checkpoint.

Questi problemi sono un vero peccato perché, se ci si sofferma ad analizzarlo, Past Cure appare come un titolo che trasuda tanto amore per i generi a cui appartiene, di cui omaggia senza troppi giri di parole gli esponenti più illustri, opere di talenti del calibro di Sam Lake, Shinji Mikami e David Cage. Una passione che purtroppo ha dovuto fare i conti con un budget non all’altezza e un’insufficiente quantità di persone (solo otto) al lavoro su un progetto così ambizioso e con troppa carne al fuoco, molta più di quanta se ne potesse realmente cuocere. Di fatto, gli unici elementi che si salvano di Past Cure sono il comparto musicale, composto per lo più di sonorità elettroniche e che ha visto anche la collaborazione del gruppo belga Seiren, e l’appeal generale che il titolo esercita sul giocatore, convincendolo a continuare a giocare sebbene la debolezza generale della trama e le frustrazioni di cui sopra.

Amore

Un’atmosfera niente male

– In linea generale Past Cure offre una grande atmosfera. Per quanto derivato da diverse produzioni ludiche o cinematografiche, il mix di elementi narrativi presenti nel titolo non è del tutto malvagio e intriga il giocatore, rendendolo desideroso di continuare l’avventura per portare a termine il titolo e fare luce sui misteri che attanagliano il protagonista.

Colonna sonora

– Uno dei pochissimi punti a favore del gioco è la colonna sonora, che ha visto la partecipazione del gruppo belga elettronico Seiren, capaci di creare delle sonorità molto interessanti che ben si sposano alla commistione di generi proposti dal titolo.

Odio

Comparto narrativo insulso

– Senza girarci troppo intorno, la trama di Past Cure è insulsa e scritta male. Alcune trovate, a cominciare dalla messa in scena dei poteri di Ian, sono banali e mal inserite nel contesto, così come troppo derivative sono la modellazione dei personaggi e i cliché provenienti dal cinema e da altre opere videoludiche di spessore.

Comparto tecnico e gameplay disastrosi

– A peggiorare il quadro già abbastanza disastroso di Past Cure ci si mette anche il comparto tecnico, che sembra provenire da un paio di generazioni fa. La buona pulizia dell’immagine non basta a risollevare il titolo dal baratro di animazioni pessime e da una cattiva gestione delle meccaniche di gameplay, tutte per lo più abbozzate e che vengono affiancate da un’intelligenza artificiale a dir poco imbarazzante.

Instabilità generale e bug

– Ultimo ma non meno importante, l’instabilità del codice di gioco e i numerosi bug che danno vita a compenetrazioni improbabili di personaggi che finiscono intrappolati nelle porte o, peggio, che generano ripetuti crash del gioco costringendo a ricominciare la partita.

Tiriamo le somme

Inutile negarlo: Past Cure è un vero disastro sotto molti punti di vista. Nonostante i pallidi barlumi di una piacevole colonna sonora e di una buona creatività generale, il titolo Phantom 8 è destinato a sprofondare dimenticato, vittima delle sue stesse sfrenate ambizioni. Un titolo inadeguato, soprattutto al prezzo a cui è proposto. Nonostante le numerose perplessità sul comparto narrativo puerile, insensato e citazionista, su un impianto tecnico imbarazzante e a un’infinità di problemi tecnici, tuttavia, Past Cure rimane una lettera d’amore incompresa ai videogiochi e film preferiti degli sviluppatori, i quali dovrebbero imparare dai loro errori per rendere questo titolo un buon punto di partenza per produzioni future più misurate e soprattutto, meglio realizzate. 4.0 MondoXbox.com

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Recensione – Dynasty Warriors 9

copertina

Dopo un’attesa durata anni, finalmente l’hack and slash per eccellenza fa il suo debutto con Dynasty Warriors 9 sull’attuale generazione di console, e per l’occasione Koei Tecmo ha voluto stravolgere una formula ormai assodata e sicura dotando il titolo di nuove meccaniche open world. Saranno riusciti a mantenere intatto il fascino della serie Dynasty Warriors, o la scommessa si sarà rivelata troppo impegnativa? Scopriamolo insieme nella nostra recensione.

Il Gioco

Nel ventesimo anniversario della nascita della serie Dynasty Warriors i programmatori di Omega Force, da sempre i più grandi interpreti del cosiddetto genere Musou, hanno deciso di stravolgere completamente la formula che ha finora contraddistinto questa serie ed i suoi innumerevoli spin-off, passando da una progressione lineare suddivisa semplicemente in stage ad un vero e proprio – e sconfinato – open world. Una scelta al tempo stesso doverosa e coraggiosa, squadra che vince difficilmente si cambia, ma certamente impegnativa e ricca di insidie.

Dal punto di vista della trama non riscontriamo particolari novità: anche in questo nono episodio possiamo rivivere le vicende raccontate nel romanzo dei Tre Regni attraverso gli occhi, e soprattutto i fendenti, della moltitudine di eroi a nostra disposizione che, in questo capitolo, raggiungono la considerevole cifra di novanta, un vero e proprio record per la serie. Oltre ai celebri Lu Bu, Cao Cao e Liu Bei, in Dynasty Warriors 9 abbiamo a disposizione anche un manipolo di nuovi personaggi come Cheng Pu, Cao Xiu e altri cinque ufficiali, oltre ad un restyling di tutti gli altri personaggi che gli appassionati ben conoscono.

Come vi dicevo, le novità sono molte e la principale è senza dubbio la nuova natura open world del gioco. Le dimensioni della mappa sono davvero ragguardevoli, in parecchie ore di gioco ho visitato meno della metà del paesaggio a disposizione: passare dai normali stage ad una mappa di queste dimensioni è davvero un grande balzo in avanti. Naturalmente questo comporta delle modifiche alla struttura di gioco: la linearità dei precedenti capitoli viene sostituita da una maggior libertà nell’affrontare le missioni che, ovviamente, sono suddivise in missioni principali, missioni secondarie o “Linked” come le chiama il gioco, arrivando ad una serie di innumerevoli missioni extra che ci affidano gli abitanti o altri ufficiali del nostro esercito. Le missioni principali sono quelle che portano avanti la storia vera e propria portandoci a combattere contro il tiranno di turno nel tentativo di liberare una specifica regione della Cina, affrontando sconfinati eserciti ed i relativi ufficiali di comando seguendo la storyline che da sempre caratterizza Dynasty Warriors. Queste sono senza dubbio le battaglie con più truppe in campo, spesso ambientate all’interno dei forti che dobbiamo conquistare per progredire nei vari capitoli del gioco. Le Linked Missions, invece, sono missioni secondarie, ma collegate alle missioni principali. Affrontandole otteniamo svariati vantaggi: oltre al naturale livellamento del personaggio o alla raccolta di materiali e ricompense varie, compiere una Linked Mission porta ripercussioni positive nelle missioni principali ad essa collegata come ad esempio l’interruzione di provviste o di rinforzi al nemico, facilitando lo svolgimento delle missioni principali e arricchendo la trama di aspetti inediti o comunque trascurati negli episodi precedenti.

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MX Video – Dynasty Warriors 9

Le missioni extra invece sono piccolissime missioni, spesso uguali tra loro, che non hanno alcun collegamento particolare con le vicende narrate, ma che ci portano comunque piccoli e grandi benefici in termine di ricompense raccolte. Avendo a che fare con un mondo aperto, nessuno ci vieta però di scorrazzare dove vogliamo dedicandoci ad una delle attività collaterali ora presenti in Dynasty Warriors 9; possiamo infatti conquistare forti a nostro piacimento, allargando il dominio nella regione e sbloccando ulteriori missioni extra, e possiamo anche dilettarci con le nuove attività di caccia e pesca, la raccolta di materiali o la semplice esplorazione, magari alla ricerca di nemici particolari, spesso di livello altissimo, che ci ricompensano con bottini molto prelibati come le pergamene più rare che ci consentono la creazione di armi, gemme ed accessori veramente potenti. In questo capitolo infatti lo sviluppo ed il potenziamento delle armi dipende dalle pergamene. Dopo averne trovata una è necessario raccogliere i materiali necessari per realizzare l’arma associata che, nei casi delle armi migliori, richiederanno anche più pergamene per poter essere completate. Queste armi in seguito possono essere ulteriormente potenziate grazie all’uso delle gemme: possiamo incastonarne fino a sei andando a modificare il comportamento dell’arma, aggiungendo ad esempio poteri elementali, bonus alla barra Musou, all’energia, alla difesa o all’attacco e così via. Fortunatamente sia le pergamene che i materiali necessari sono facilmente reperibili nel mondo di gioco, o in uno dei molti negozi disponibili nei villaggi e nelle città. Questi spaziano dall’immancabile fabbro che ci consente di creare armi, gemme ed accessori, al tipico commerciante che ci vende pozioni, mobili ed oggetti vari, arrivando alla Stalla in cui possiamo acquistare la nostra cavalcatura. Compaiono anche due figure inedite che si riveleranno molto utili: la prima è il Dilettante, un commerciante che ci può vendere gemme o monete antiche pagandolo coi Punti Caccia guadagnati, ovviamente, cacciando. La seconda è il Collezionista di Monete che vende pergamene ed accessori anche di altissima qualità mediante il pagamento di una delle quattro diverse valute presenti nel gioco.

Un’altra piccola novità presente in Dynasty Warriors 9 è la possibilità di acquistare una o più abitazioni potendo anche arredarla, utilizzarla per rifocillarsi ma anche per incontrare altri ufficiali alleati andando a rinsaldare il nostro rapporto, inoltre è possibile dormire facendo passare il tempo sfruttando il ciclo giorno/notte che il gioco mette a nostra disposizone. Quest’ultimo non si rivela un semplice cambio di illuminazione, ma ha anche dei piccoli risvolti capaci di influenzare le missioni che stiamo per affrontare: tentare una conquista di un forte in notturna è senz’altro più semplice che farlo in pieno giorno con le truppe schierate. A corredo di questa nuova possibilità è stata introdotta una vera e propria modalità stealth: riponendo la la nostra spada ed accovacciandoci, diventiamo più difficili da individuare potendo quindi effettuare dei veri e propri attacchi a sorpresa, magari sfruttando il nostro arco e mantenendo una distanza di sicurezza tra noi ed i nemici.

Oltre a queste novità, anche i colpi dei personaggi hanno subito un discreto rinnovamento: le classiche combo a suon di button mashing dei disgraziati tasti X e Y sono ancora presenti, ma sono adesso accompagnate dai nuovissimi attacchi “mutastato”. Tenendo premuto il dorsale destro e premendo uno dei tasti principali, abbiamo ora nuovi attacchi utilissimi e spettacolari che rendono le nostre combo praticamente infinite; sferrare un attacco speciale, lanciare in aria i nemici per poi colpirli in volo con altri fendenti, stordirli lasciandoli indifesi per qualche istante ed infine atterrarli. Alternando queste nuove mosse con i classici attacchi standard o l’attacco Musou, abbiamo la capacità di creare combinazioni davvero devastanti. E non è finita qui: oltre ai nuovi attacchi Mutastato fanno la loro comparsa anche i nuovi attacchi Reattivi: questi si possono essere attivati subito dopo il relativo messaggio su schermo e, dopo aver premuto il tasto al momento giusto, ci consentono di interrompere l’attacco di un nemico o di infliggergli un vero e proprio colpo di grazia, mossa più che utile negli scontri con gli ufficiali nemici.

Non mancano i classici Power Up che da sempre caratterizzano Dynasty Warriors, ma anche in questo caso abbiamo una novità: oltre ai classici bonus che possiamo raccogliere sul campo di battaglia e che ci ridaranno energia, Musou e tutti gli altri benefici, in questo nono capitolo possiamo portare con noi altri 4 oggetti consumabili che possiamo scegliere tra tutti quelli da noi realizzati. Tra questi figurano le classiche pozioni curative o rigeneratrici di Musou o della resistenza e tantissimi altri oggetti ognuno dotato del proprio bonus.

Oltre alla modalità Storia, suddivisa tra le quattro famiglie principali e la solita categoria “Others”, completando anche una sola storia – ad esempio quella della bellissima DiaoChan che dura un solo capitolo – sbloccheremo l’immancabile modalità Libera che ci consente di affrontare qualsiasi missione già compiuta nella Modalità Storia con uno qualsiasi dei personaggi da noi sbloccati. Totalmente assente invece una qualsiasi componente online, sia cooperativa che competitiva, rendendo di fatto Dynasty Warriors 9 un gioco single player in tutto e per tutto.

Amore

Un inedito ed enorme Open World

– Che la serie avesse bisogno di un rinnovamento era cosa risaputa e probabilmente necessaria da ormai molto tempo, ma stravolgere dalle fondamenta un prodotto che, nel bene e nel male, ha un discreto bacino di appassionati non dev’essere stata una scelta facile. L’impegno dei ragazzi di Omega Force è evidente viste innanzitutto le enormi dimensioni della mappa e le tantissime attività colleterali presenti. Gli ingredienti per creare un buon open world ci sono tutti, a partire dall’innumerevole numero di battaglie, dalla libertà di fare ciò che si desidera senza alcun vincolo come la conquista di decine di forti nemici, le cinque diverse Storie da affrontare e le tante attività accessorie come la raccolta di materiali, il livellamento del personaggio e, per la prima volta, anche del nostro destriero, arrivando alla semplice esplorazione. Quest’ultima funziona esattamente come in altri titoli più blasonati sfruttando le torri di guardia per evidenziare parti di mappa ed i relativi segreti, accompagnata da una moltitudine di punti di viaggio rapido in modo da non obbligarmi a lunghissime cavalcate per tornare in luoghi già visitati. Tutto è fatto nel tentativo di non rendere tedioso il gioco, puntando l’attenzione del giocatore sulle furiose battaglie che la serie ci offre da sempre e lasciando totale libertà di scelta sul come affrontare questa nuova veste Open World: sia che vogliate perlustrare palmo a palmo l’intero territorio o che preferiate l’uso e l’abuso del viaggio rapido. Certamente ci sono enormi margini di miglioramento dal punto di vista strutturale, ma mi sento di premiare il rischio corso da Koei Tecmo nel voler stravolgere una formula più che collaudata.

La solita, smisurata longevità

– I Dynasty Warriors hanno sempre avuto un enorme numero di difetti e problemi assortiti, ma certamente la longevità non rientra tra questi, anzi. In Dynasty Warriors 9 i programmatori di Omega Force si sono addirittura superati offrendo un enorme mondo da esplorare, cinque diverse “famiglie” con le loro differenti Storie da affrontare e completare, un roster di novanta personaggi giocabili e potenziabili e un sacco di altre attività collaterali. Ci vuole davvero poco per capire che la quantità non è problema. Volendo portare al level cap uno o più dei miei personaggi preferiti difficilmente si parlerà di decine di ore di gioco, ma piuttosto di centinaia, minimo.

Localizzazione italiana

– Questo è un aspetto che merita di essere sottolineato innanzitutto perchè è la prima volta che un Dynasty Warriors ha questo livello di localizzazione nella nostra lingua, ma anche perchè è argomento più che attuale l’abbandono dell’italiano da parte di altri publisher con budget di ben altro spessore. Koei Tecmo merita senz’altro un plauso per aver tradotto tutti i testi ed i menu di gioco nel nostro bistrattato idioma. Il parlato invece è presente in giapponese, inglese ed anche in cinese.

Giocabilità arricchita e migliorata

– L’introduzione delle nuove mosse Mutastato va a rinfrescare un gameplay che in passato si basava solo sulle combo date dall’alternanza dei due attacchi disponibili e che era fortemente legato al livello del personaggio: nelle prime fasi di gioco i colpi a disposizione erano davvero troppo pochi. Ora invece è possibile creare combo spettacolari da subito proprio grazie all’introduzione delle nuove meccaniche, rendendo più divertente l’utilizzo di personaggi anche di basso livello, favorendo quindi la voglia di sperimentare tutti, o quasi, i comandanti presenti.

Odio

Tecnicamente uno scempio!

– Inutile fare giri di parole: Dynasty Warriors 9 tecnicamente delude su tutti i fronti. La versione da noi provata è quella Xbox One X, e le mie aspettative non erano di certo altissime, ma considerando l’enorme potenza dell’ammiraglia di casa Microsoft mai mi sarei aspettato tutti questi problemi. Partiamo dal frame-rate: i 60 fps sono pura utopia al momento. Il gioco si mantiene abbastanza fluido in entrambe le impostazioni grafiche presenti: Azione, che dovrebbe prediligere il frame-rate e Filmato, che dovrebbe avere una frame-rate bloccato a 30 fotogrammi al secondo con un boost alla definizione. Come avrete certamente notato sono costretto ad usare il condizionale perché, in entrambi i casi, il raggiungimento anche dei soli 30 fps non è affatto scontato. Tra le due modalità vi consiglio caldamente la modalità Azione: le differenze a livello di definizione sono impercettibili, il framerate zoppica in entrambi i casi, ma almeno ho notato un minore tearing, poichè in questo festival della scarsa ottimizzazione si palesa anche questo problema, soprattutto all’interno di città e forti. Fortunatamente i cali notati non influiscono troppo sul gameplay, presentandosi principalmente durante gli attacchi Musou in mezzo a centinaia di soldati nemici. Resta comunque un quadro sconfortante anche perchè la definizione nativa è lontana anni luce dai 4K di cui è capace la console.

Un altro enorme problema è lo streaming ed il relativo caricamento delle textures: anche in questo caso ho assistito a difetti che mai mi sarei aspettato di trovare nel 2018. Dopo ogni caricamento, ad esempio dopo una cut-scene o uno spostamento rapido, il gioco fatica a caricare le textures ed il panorama che ne consegue è desolante. Peccato però che anche dopo esser state caricate, lo spettacolo non sia nulla di eccezionale, anzi, pare quasi un gioco della scorsa generazione a causa della bassa definizione generale. Questo aspetto è stato in parte mitigato con l’introduzione dell’ultima patch, ma certamente non risolto. Un altro difetto che mi ha dato molto fastidio è la realizzazione dei personaggi: se i volti risultano ben definiti e caratterizzati, dal collo in giù purtroppo il discorso cambia offrendo un forte ed evidente stacco di definizione tra il viso ed il resto del corpo dei personaggi; finchè siamo ad una certa distanza dall’obiettivo il risultato è accettabile, ma nei primi piani la differenza di realizzazione è evidente e davvero fastidiosa.

Come se tutti questi problemi non bastassero, il gioco è afflitto anche da un discreto pop up che riguarda la vegetazione e, specialmente, le truppe sul campo di battaglia. Queste ultime si comportano in un modo assolutamente anomalo: in lontananza i piccoli soldati saranno delle macchiette nere animate in maniera imbarazzante, avvicinandomi ad essi cominciano a guadagnare definizione, ma qui interviene un problema davvero strano probabilmente dovuto al bassissimo framerate in cui sono rappresentate da lontano e che portano questi piccoli gruppi a spostarsi repentinamente al nostro avvicinarsi, quasi come se il gioco contasse i passi dei soldati e poi, in loro prossimità, si accorga dell’errore commesso riportandoli al punto “corretto” che sarà inevitabilmente lontano da quello che pochi attimi prima vedevo su schermo. Difficile da spiegare a parole, ma la cosa peggiore è che il risultato finale è davvero brutto da vedere. Fortunatamente quasi tutti questi problemi affliggono il gioco durante le fasi di esplorazione, durante gli scontri la frenesia dei combattimenti riesce a distrarci dalla deludente realizzazione tecnica che affligge Dynasty Warriors 9.

Alcune meccaniche che sanno di vecchio

– Come vi ho già detto il gioco ci propone un sacco di meccaniche inedite per la serie, peccato però che la loro realizzazione mi ricordi giochi di almeno due generazioni fa. La fase stealth ad esempio è impacciatissima, le animazioni durante l’utilizzo del rampino sono pessime e stesso dicasi per la fauna selvaggia: vedere un orso camminare sarà davvero uno spettacolo grottesco. Non sfuggono a questa triste situazione l’uso dell’arco e della canna da pesca, anche in questi casi la sensazione di stare giocando ad un gioco di parecchi anni fa è davvero forte. Conclude questo quadro quasi sconcertante la realizzazione delle cut-scenes mediante il motore di gioco: anche in questo caso preparatevi ad un viaggio nel passato con i personaggi più che ingessati, con animazioni davvero brutte e a volte addirittura ridicole e totalmente fuori contesto.

Cambio personaggio complicato

– Ci vuole una bella testa ad offrire qualcosa come 90 personaggi giocabili per poi rendere eccessivamente complicata la possibilità di cambiarli. All’inizio della modalità storia abbiamo la possibilità di scegliere tre delle cinque fazioni disponibili, con un solo personaggio per ognuna. Non allarmatevi perchè non ci vorrà molto per sbloccarne altri, sarà sufficiente proseguire nella storia ed in poco tempo avremo un buon numero di ufficiali tra cui scegliere. Peccato però che i programmatori abbiano avuto la geniale idea di rendere davvero complicata la possibilità di cambiarli. Non è infatti possibile farlo in un momento qualsiasi del gioco, siamo invece obbligati a concludere la partita, creandone una nuova caricando uno dei capitoli già compiuti, potendo infine selezionare un nuovo personaggio. Un scelta abbastanza insensata.

Tiriamo le somme

Da grandissimo appassionato della serie non posso nascondere la delusione e l’amarezza che ha suscitato in me Dynasty Warriors 9. L’idea di un enorme mondo da esplorare liberamente in cui massacrare a suon di combo esagerate migliaia e migliaia di nemici era per me un sogno, e le premesse per questo nuovo capitolo erano davvero interessanti. Purtroppo però il sogno è realizzato solo in parte: ho davvero apprezzato la nuova natura open world, i nuovi colpi a nostra disposizione e l’assoluta libertà d’azione, ma tutto questo viene oscurato da una realizzazione tecnica assolutamente insufficiente, anche sulle console più potenti. Inoltre molte delle nuove meccaniche proposte sanno di vecchio, andando a compromettere ulteriormente il giudizio. Le idee buone c’erano tutte, aggiungere un mondo aperto e molti aspetti ruolistici alla frenesia dei combattimenti tipici della serie poteva essere la formula perfetta per riuscire finalmente a solleticare l’interesse di un pubblico maggiore nei confronti dei Musou, invece le scarse capacità e la fretta di uscire hanno complicato terribilmente la situazione, riuscendo nella difficile impresa di rendere Dynasty Warriors 9 un prodotto ancora più di nicchia rispetto ai suoi predecessori. 6.5 MondoXbox.com

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Recensione – Quantic Pinball

Il Gioco

Tutti conoscono il flipper: si lancia una sfera su un tavolo pieno di rampe, bumper ed elementi interattivi, martellandola con le due palette per non farla cadere in buca ed ottenere punteggi sempre più alti. Il punteggio è il re della partita, e non conta se lo si ottenga lanciando allo stremo la sfera sempre verso gli stessi elementi oppure se si rischi cercando combinazioni sempre più complicate. l’importante è battere i record. Quantic Pinball prende questo concetto offrendoci però una rappresentazione più retrò, con tavoli 2D e inizialmente più semplici dei pinball moderni, ma non limitando l’esperienza ad un singolo tavolo, proponendoci un vero e proprio “percorso Pinball”.

La partita inizia da un tavolo molto basilare: pochi ostacoli, qualche rampa, nessuna complicazione particolare, persino le decorazioni sono al minimo. Completando però un tot di tiri per ogni rampa, si apre un’altra rampa inizialmente bloccata che, una volta imboccata con la sfera, ci porta verso un nuovo livello di complessità e difficoltà superiori. Ci sono, infatti, 6 livelli di difficoltà e complessità crescente che introducono design sempre più tosti, anche se il gameplay rimane pressoché invariato così come il look generale. Ci sono però delle variazioni: a parte i classici multiball, è anche possibile far partire curiose missioni che vanno a stravolgere il gameplay e, in molti casi, anche la fisica del gioco. Alcuni esempi? Una modalità con dei buchi neri che attirano le palle verso di loro, una variante blackout dove solo la parte intorno alle sfere è illuminata (il che rende molto più difficile anticiparne i movimenti), e così via.

MondoXbox.com

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Recensione – Fe

L’ultimo evocativo titolo del team svedese Zoink!, Fe, prende le distanze dallo stile scanzonato e pungente delle opere precedenti della software house, proponendoci un sentito inno alla natura e alle sue creature, facendoci esplorare un vasto mondo aperto nei panni di un piccolo essere alle prese con una missione impossibile. Sarà riuscito l’ambizioso Fe a toccarci il cuore? Scopritelo nella nostra recensione.

Il Gioco

I ragazzi del team svedese Zoink! ci hanno sempre abituati al loro stile graffiante e sgangherato, condito da un umorismo demenziale che trasuda sin dalle fattezze e la caratterizzazione dei personaggi presenti nelle loro varie opere videoludiche. Ebbene, Fe prende volutamente le distanze dalle dissacranti avventure del passato composte per lo più da titoli di genere platform e buffi picchiaduro a scorrimento orizzontale, proponendoci un accorato e serioso inno alla natura.

La nostra avventura in Fe inizia nei panni di una minuta e indifesa bestiola che si risveglia sperduta nella radura di un bosco sacro, teatro di un’invasione in piena regola da parte di inquietanti e corpulenti esseri bipedi con un occhio solo. Scopriremo presto che l’invasione aliena ha provocato ingenti danni al bosco, rendendolo un posto oscuro e silenzioso, violando e saccheggiando le varie specie animali che lo abitano. La stessa sorte è toccata anche al reggente del bosco, l’imponente albero sacro che regola l’armonia e scandisce i ritmi della vita dell’intero e complesso ecosistema presente nel gioco. Attraverso i primi incerti passi del piccolo protagonista, il cui aspetto ci ricorda un paffuto cucciolo di drago, cominceremo a familiarizzare con l’enorme ambiente circostante, pieno di percorsi e ricco di sporgenze apparentemente irraggiungibili.

In effetti il piccolo Fe all’inizio del gioco sarà davvero sprovveduto, essendo in grado soltanto di spiccare brevi salti, afferrare oggetti e, ultimo ma non meno importante, emettere una specie di verso di cui potremo controllare l’intensità e la melodia dosando la pressione sul grilletto destro del pad. Questa meccanica di gameplay è l’elemento fondante in Fe, e ne avremo conferma fin dalle prime battute di gioco, in cui ci troveremo a interagire con gli animaletti della foresta sopravvissuti all’invasione aliena, utilizzando il nostro verso come una portante modulabile per poterci sincronizzare con il loro richiamo. Una volta trovata la giusta sincronia vocale con l’animaletto di turno, ne diventeremo alleati e potremo sfruttare così la sua innata dote, che ci permetterà di attivare speciali piante e fiori al fine di superare barriere presenti nello scenario e risolvere piccoli puzzle ambientali. Ad esempio gli uccellini saranno in grado di aprire determinati baccelli da cui attingere a speciali bacche esplosive, i caprioli possono attivare dei fiori che generano una corrente ascensionale, mentre i facoceri potranno liberarci il cammino sbarrato dai funghi.

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MX Video – Fe

I cuccioli delle varie specie presenti in Fe sono sempre ben felici di fare la nostra amicizia, correndoci incontro e deliziandoci con i loro versi e evoluzioni, mentre gli adulti sono più restii a darci udienza e ci faranno capire che dovremo faticare un po’ di più per conquistarci la loro fiducia. Per approfittare dei loro servigi saremo in genere chiamati a risolvere una situazione particolarmente spinosa, che nella maggior parte dei casi comprenderà la liberazione di un animale sacro dalle grinfie degli alieni invasori. Ed è qui che Fe esplode in tutta la sua bellezza visiva e sonora, ponendoci di fronte a mastodontiche divinità animalesche da salvare, come la gigantesca alce o l’immenso bruco.

Sulle prime, esplorando il mondo aperto di Fe non avremo ben chiara la nostra missione, non essendo presenti né tutorial, né tantomeno dialoghi a schermo: l’intero impianto narrativo del gioco si erge infatti sull’utilizzo delle onomatopee che appaiono a schermo durante l’interazione con la fauna e la flora del posto e su incisioni rupestri presenti sulle pareti rocciose. In particolare, attraverso questi dipinti e mediante i ricordi custoditi in determinati scrigni, riusciremo a far luce sulla tragica sorte che è toccata alla maggior parte di esseri viventi che popolano l’ecosistema: alcuni di essi catturati o uccisi, mentre altri resi schiavi e tramutati loro malgrado in creature corrotte e malvage. Le doti comunicative del piccolo protagonista saranno quindi alla base dell’esperienza e ci permetteranno di acquisire nuove capacità, come ad esempio scalare gli alberi o planare, cavalcare creature alate o bestie sotterranee per effettuare spostamenti all’interno della grande mappa di gioco. Parte di queste doti verranno acquisite in automatico portando a termine le varie quest che ci chiederanno di liberare i giganteschi animali sacri di cui sopra, mentre le rimanenti, del tutto facoltative per poter portare a termine l’avventura, potremo guadagnarcele collezionando le numerose gemme sparse all’interno del mondo di gioco. L’apprendimento di tutti e sei i richiami del protagonista sarà necessario sia per poter esplorare l’intero ecosistema, composto da nove zone differenti, che per scovare tutte le gemme, cosa non fattibile prima di essere giunti alle ultime fasi di gioco.

Ogni zona presente nella mappa è caratterizzata in modo originale, con peculiari tonalità di pastello e un clima specifico. In ogni zona troviamo poi determinate razze animali, non tutte pacifiche o disponibili ad averci intorno come gli orsi, ma che potremo comunque utilizzare a nostro vantaggio come armi offensive contro i nemici invasori attraverso il lancio di esche e sfoltire così le minacce di troppo. E proprio parlando di minacce, è impossibile non menzionare l’ennesima meccanica di gameplay su cui Fe si fonda: lo stealth. Per quanto sia solo abbozzata, la presenza di questa meccanica è l’unica arma di cui dispone il piccolo protagonista. Infatti gli energumeni meccanici che invadono la mappa di gioco sono troppo forti per lui, ed essere raggiunti dal loro raggio paralizzante significa il game over, per cui nascondersi tra i cespugli memorizzando i percorsi di ronda di queste malvage sentinelle e sgattaiolare inosservati è l’unico modo per avere salva la pelle. Sotto questo aspetto tuttavia il titolo non è affatto punitivo e decide deliberatamente di tenere bassa l’asticella della difficoltà al fine di privilegiare l’esplorazione e prevenire eventuali frustrazioni dovute al trial and error, complice anche un fin troppo generoso impianto di salvataggi automatici piuttosto frequenti, che permettono rapidi respawn in caso di decesso. Nel complesso questa accessibilità si rivela anche un bene, in quanto la telecamera di gioco spesso tende a incastrarsi e il sistema di controllo non è sempre dei più reattivi.

Se da una parte Fe ci cattura con il suo bellissimo comparto estetico stiloso, minimalista e perfettamente coerente alla tipologia di avventura proposta, dall’altra ci lascia un po’ interdetti per via del suo modo di raccontare la trama, decisamente troppo frammentato e per certi versi lacunoso e sconclusionato, anche una volta arrivati al compimento delle 5 o 6 ore della durata del gioco. Un neo questo che pesa fin troppo negativamente sul grande lavoro artistico svolto dagli Zoink!, in particolare sull’ambientazione evocativa, la caratterizzazione dei personaggi e sulla piacevole meccanica di gioco basata sui vocalizzi della creatura protagonista. Tutti elementi che purtroppo non trovano una tangibile collocazione all’interno del contesto perché privati di un racconto narrativo organico e lineare, che forse sarebbe risultato meno originale di quello proposto in Fe, ma quantomeno più comprensibile e utile a dare giustizia ad un’opera così accattivante.

Amore

Un ecosistema tutto da esplorare

– L’atmosfera di Fe è eccezionale. Il vasto open world partorito dalla mente del team Zoink! è affascinante e si presta all’esplorazione compulsiva, missione che può essere compiuta non prima di aver appreso tutte le tecniche comunicative del protagonista per poter risolvere i numerosi puzzle ambientali. Al di là della mera raccolta di gemme utili per sbloccare nuove abilità, l’ecosistema è piacevole da visitare palmo a palmo per poter saggiare le differenti tipologie di clima e di conformazione che diversificano i nove ambienti che lo compongono e le relative razze animali e piante che lo abitano. Un lavoro eccezionale e per certi versi inaspettato da un titolo di questo genere.

Bello da vedere e da ascoltare

– Il grande lavoro di personalizzazione degli ambienti svolto su Fe non è soltanto visivo, ma anche sonoro. Infatti il team di sviluppo non ha saputo risparmiarsi neppure sotto questo aspetto, miscelando classiche sonorità ambientali di boschi e foreste, composti per lo più da richiami di animali reali, a suoni e versi realizzati in modo artigianale attraverso la registrazione e la modulazione di voci umane. Nel complesso un ottimo lavoro di sound design che rende ancor più estraniante l’impatto estetico della produzione.

Odio

Impianto narrativo frammentario

– A mio parere, l’unica vera delusione dell’intera produzione. Nonostante sia bello e divertente, Fe non riesce a raccontarsi a dovere. Infatti l’escamotage di destinare la narrazione del titolo alle sole incisioni rupestri sparse in giro per la mappa di gioco e ai ricordi interattivi custoditi negli scrigni non tiene il passo con la potenza visiva e sonora e soprattutto col respiro dell’opera, e rende la trama impalpabile e sconnessa, destinandone il senso alla fantasia e alla sensibilità del giocatore. Un vero peccato, specie per un titolo dalle tinte tanto deliziose come questo.

Tiriamo le somme

Fe è un’avventura dal fascino e dal carisma indiscutibili. L’ottimo lavoro estetico e concettuale svolto sulla caratterizzazione di ambienti e personaggi è palpabile fin dai primi momenti di gioco ed è secondo probabilmente soltanto alla ricerca e alla costruzione delle complesse e originali sonorità che si innestano perfettamente su un comparto tecnico ottimo, fatta eccezione per sporadici bug, per una gestione della telecamera non proprio al top e per dei controlli non sempre puntuali nella risposta. La grande accessibilità proposta dal titolo, inoltre, lo rende adatto per tutti privilegiando esplorazione e divertimento. Paradossalmente, l’unico bersaglio mancato di Fe è proprio l’aspetto su cui dovrebbe fondarsi un’opera di questo livello: la trama. Frammentata, inconcludente e lasciata alla mercé della fantasia del giocatore, non rende giustizia ad un titolo con un respiro così ampio ed evocativo, che avrebbe necessitato di un comparto narrativo più chiaro e lineare. Nonostante ciò, è impossibile valutare negativamente Fe o sconsigliarne l’acquisto, soprattutto agli appassionati del genere e a chi apprezza i titoli realizzati con dovizia e amore e che, proprio come Fe, sanno appassionare e divertire. 8.5

MondoXbox.com

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Recensione – InnerSpace

Grazie al successo della campagna crowdfundind su Kickstarter nel 2014, il team di sviluppo texano PolyKnight presenta sulle nostre console InnerSpace, particolare mix tra simulatore di volo e avventura narrativa che punta tutto sull’esplorazione di un mondo fantastico. Scopriamone le caratteristiche nella nostra recensione!

Il Gioco

Stando alle dichiarazioni dei componenti del team di sviluppo, InnerSpace è stato concepito svariati anni or sono, ai tempi del college, in cui da ragazzi i futuri fondatori del team PolyKnight si incontravano per fantasticare sull’impiego di nuove e rivoluzionarie tecniche di game design. Da quella che allora era solo una scintilla d’ingegno, tanta fantasia e qualche schizzo su un quadernone, anni dopo nacque un’avventura aerea basata sull’esplorazione di un vasto mondo alieno.

InnerSpace ci racconta infatti di un’antica civiltà in grado di sfruttare le capacità del Vento, una sorta di energia mistica che a sua volta ha dato vita all’Inverso, un vero e proprio pianeta “al contrario” che contiene oceani e cieli al suo interno come una sfera ripiena di vita. Gli Antichi, così vengono chiamati gli esponenti della civiltà perduta, erano brillanti architetti e inventori, in grado di edificare l’Inverso con sofisticate strutture e costruire droni e macchinari senzienti sfruttando l’energia magica del Vento. Tuttavia il loro status di sovrani dell’Inverso venne spodestato dall’insurrezione dei Semidei, i quali non approvavano l’indebita appropriazione del Vento da parte degli Antichi. Fu così che l’Inverso cessò di esistere e con esso gli Antichi. O almeno così raccontano le leggende.

I nostri primi passi all’interno dell’incomprensibile mondo di InnerSpace avvengono grazie a colui che diverrà il nostro fedele compagno durante tutta l’avventura: un sottomarino che si definisce l’Archeologo, impegnato nella raccolta di reliquie che testimoniano l’oscuro destino degli Antichi. Il nostro nuovo amico ci riporta in vita nella forma di un rudimentale aeromobile chiamato Cartografo, composto di una struttura tubolare capace di fluttuare in aria mediante ali sottili e un’elica posteriore. Ci racconta che la nostra riprogrammazione è stata difficile perché non si era mai imbattuto in una macchina senziente prima d’ora, e che la tecnologia di cui è munito il nostro cervello digitale non gli è del tutto chiara. Dopo aver scambiato due chiacchiere con l’Archeologo, ben felice di rispondere alle nostre domande, potremo dedicarci a quella che diventerà la nostra missione principale: aiutarlo nella raccolta di frammenti di Vento e antiche reliquie risalenti al tempo degli Antichi sparse all’interno del mondo di gioco. L’Archeologo sarà anche una mente brillante e ambiziosa, ma la sua struttura di sommergibile gli impedisce di poter esplorare al meglio l’ambiente e superare le numerose barriere presenti nell’Inverso. Ed è qui che entra in gioco il nostro piccolo protagonista alato.

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MX Video – InnerSpace

Durante le prime battute di InnerSpace, ai comandi del Cartografo, potremo librarci in aria e prendere confidenza con il vasto e astratto ambiente circostante, costituito da enormi strutture di roccia sulle quali si inerpicano venature luminose o strutture simili a palafitte abbandonate. I costoni e le pareti rocciose, dipinti con rilassanti colori pastello, sono poi bagnati da enormi piscine naturali o da fiumi sotterranei che conducono verso sbocchi da esplorare per poter raccogliere il maggior numero di frammenti di Vento possibile. La fragile struttura iniziale del Cartografo non ci consente di esplorare gli abissi, ma fortunatamente la nostra condizione di solo velivolo durerà relativamente poco, in quanto c’imbatteremo presto in una serie di reliquie da consegnare all’Archeologo, il quale sarà in grado di usarle per creare una nuova fusoliera per il nostro aeroplanino. Proprio come una farfalla, il Cartografo abbandonerà il suo triste aspetto da aliante per tramutarsi in un magnifico aeroplano con grosse ali robuste, che mediante la pressione del dorsale superiore destro del pad, potrà mutare a piacimento in sommergibile.

Da questo momento in poi, InnerSpace potrà finalmente offrirci un’esperienza più completa, dandoci la possibilità di varcare i confini dell’aria per tuffarci liberamente negli specchi d’acqua alla ricerca di nuovi frammenti di Vento, nuove reliquie e, non ultimi, nuovi percorsi da esplorare. Infatti “esplorazione” è la parola d’ordine in questo titolo, che ci lascia perlustrare i suoi vivaci mondi pastello ricchi di anfratti e passaggi celati in lungo e in largo. Potremo cosi osservarne le mutazioni e le primordiali forme di vita che lo popolano, compresi i semidei, creature divenute divinità, con cui interagiremo una volta che avremo collezionato abbastanza reperti capaci di farci superare il mondo in cui ci troviamo. Il ritrovamento e l’interazione con le reliquie degli Antichi per certi versi rappresenta già un minigioco di suo, in quanto ci terrà occupati non solo nella loro ricerca, ma anche con la loro attivazione mediante la quantità di Vento raccolto, al fine di migliorare le nostre fusoliere e permettere all’Archeologo di crearne di nuove. Capiterà spesso di sentirsi persi all’interno dei mondi di gioco, soverchiati dalla sua vastità e privi di spunti su dove andare o cosa fare, ma fortunatamente potremo contare sull’aiuto dell’Archeologo che sarà ben felice di aiutarci rispondendo alle nostre domande e dandoci anche qualche sporadica dritta sui percorsi da seguire.

InnerSpace offre un sistema di controllo molto meno banale da padroneggiare di quanto il tutorial iniziale ci voglia far credere. Il Cartografo è infatti capace di compiere svariate evoluzioni, tanto in aria che in acqua, permettendoci di modificare la sua traiettoria e velocità mediante gli stick analogici, ma non è tutto oro quello che luccica. Di base, la gestione dei comandi durante il volo negli spazi molto vasti non è male, ma bisogna tenere a mente che in InnerSpace non esiste necessariamente un sopra o un sotto. Infatti a ogni nostro spostamento, virata o beccheggio, avremo come l’impressione di impastare l’ambiente circostante, perdendone i punti di riferimento. Si fa fatica a fronteggiare questo senso di smarrimento anche dopo ore di gioco e si ha la perenne sensazione di cavalcare un cavallo imbizzarrito, ma i veri e grossi problemi si verificano esplorando le zone al chiuso. Quando esploriamo l’interno delle numerose strutture sotterranee degli Antichi o le feritoie naturali di roccia, a cui potremo avere accesso tagliando determinati filamenti luminosi o colpendo specifiche aste per attivare circuiti in grado di aprire portali rocciosi, il sistema di controllo del Cartografo diventa un vero incubo. Questo ci costringe a un intervento estremo sui comandi del pad che troppo spesso si rivela vano per riuscire ad orientarci, generando così collisioni multiple sulle superfici che ci costringono a ricominciare dal checkpoint.

A conti fatti, questo del sistema di controllo è il difetto più grosso di InnerSpace, che resta un titolo capace di emozionare con la sua riuscitissima atmosfera e grazie alla sua colonna sonora sognante che ci accompagna con delicatezza per tutta la durata dell’avventura. Ciliegina sulla torta, il titolo offre anche un’inaspettata localizzazione italiana dei testi, per quanto qualcosa dev’essere andato storto durante questo procedimento, dato che molto spesso le frasi sottotitolate sono prive di lettere accentate. Restiamo in attesa di una patch correttiva.

Amore

Un design accattivante

– I mondi a pastello dell’Inverso in InnerSpace sono resi in modo eccezionale. Sorvolare le cime rocciose tra i drappi mossi dal vento o gettarsi nelle acque oscure illuminate a malapena dagli anemoni che ondeggiano indolenti per la corrente ha un che di romantico. Il tutto poi finemente accompagnato dalla colonna sonora elettronica, minimalista ma efficace e perfettamente intonata a tutti gli eventi sonori che popolano l’ambiente circostante. Un lavoro sottrattivo ma incredibilmente evocativo.

Esplorazione con la E maiuscola

InnerSpace è esplorazione pura, punto. Grazie al nostro piccolo Cartografo abbiamo accesso a svariati mondi vasti e ricchi di passaggi e insenature all’interno delle quali andremo alla ricerca di reliquie e del prezioso Vento per poter ottenere bonus e nuove livree, che conferiranno al nostro velivolo un aspetto sempre più angelico. Per questo servirà molta pazienza e dedizione, elementi che rendono InnerSpace un titolo non adatto a tutte le categorie di giocatori.

Odio

Sistema di controllo da incubo

– L’unico vero grande neo di InnerSpace è il suo sistema di controllo, che ci rende la vita difficile soprattutto quando cerchiamo di compiere manovre particolarmente precise. Rappresenta l’aspetto più grossolano di questo titolo e che spesso lo rende frustrante, vanificando il concept di “esplora rilassandoti” alla base del titolo. Sarebbe stato un difetto risibile se il sistema di controllo rappresentasse solo un elemento accessorio dell’esperienza di gioco, e invece il team di sviluppo ha reso questo aspetto fin troppo preponderante, soprattutto vista la collocazione di determinati artefatti e oggetti interattivi, posti in luoghi angusti dove il Cartografo è troppo difficile da comandare e per questo, diventa una biglia impazzita che rimbalza sulle pareti.

Tiriamo le somme

InnerSpace è un titolo atipico, con un game design molto accattivante e uno stile bello e originale. La formula di un titolo esplorativo, fortemente incentrato sulla narrazione, che procede mediante la raccolta e l’attivazione di collezionabili sembra quasi un filtro magico, ma bisogna ammettere che in questo i ragazzi di PolyKnight sono stati davvero degli assi. L’idea alla base di InnerSpace c’è ed è anche originale, proprio come il suo evocativo comparto visivo e l’ottimo accompagnamento sonoro. Ma il coloratissimo incantesimo del team di sviluppo si rompe proprio sul più bello, rovinato da uno scarso senso di progressione che rende il titolo inconcludente e da un sistema di controllo spiacevole e approssimativo, che genera un eccessivo smarrimento e muta ben preso in frustrazione. 7.0 MondoXbox.com

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Recensione – The Vanishing of Ethan Carter

Dopo l’uscita su altre piattaforme negli anni scorsi, il team polacco The Astronauts si appresta finalmente a rilasciare anche su Xbox One la loro evocativa opera prima, The Vanishing of Ethan Carter, che ci mette nei panni di un investigatore nel tentativo di far luce sulla sparizione di un bambino in una cittadina abbandonata. Presupposti intriganti, non trovate? Scoprite di più nella nostra recensione del gioco.

Il Gioco

Questo gioco è un’esperienza narrativa che non ti conduce per mano”. Così titola The Vanishing of Ethan Carter non appena facciamo partire il gioco. Ed effettivamente è vero: il tempo di un primo caricamento iniziale e ci si ritrova nell’anno 1973, sperduti in un rigoglioso boschetto alle porte della cittadina di Red Creek Valley, nei panni di Paul Prospero, investigatore privato e protagonista del gioco. Il detective Prospero non è un semplice investigatore, diciamo che è quel tipo di professionista che chiami solo per risolvere i casi davvero impossibili. Egli è infatti un investigatore del paranormale, e la sua specialità è far luce su decessi o sparizioni in circostanze misteriose. Paul è arrivato a Red Creek Valley incuriosito da una lettera scritta da un bambino dodicenne di nome Ethan Carter, in cui chiedeva il suo aiuto. Nella sua lettera Ethan diceva di essere in serio pericolo e che neppure la sua famiglia avrebbe potuto salvarlo.

Neanche a dirlo, non appena Prospero supera i confini del bosco si accorge che Red Creek Valley, un tempo viva e laboriosa cittadina mineraria, è ormai praticamente deserta e priva di vita. Ma neppure la bellezza lussureggiante della natura incontaminata, né la maestosità dei panorami possono distrarre il detective dal suo dovere: grazie alle sue innate doti sensoriali riesce sempre a individuare indizi utili come macchie di sangue o magari appunti lasciati in giro, che lo conducono puntualmente all’efferato delitto di turno.

Il nostro compito, oltre esplorare le vastissime aree del gioco, è quello di raccogliere preziosi indizi che ci mettano sulle tracce del piccolo Ethan. Durante la nostra investigazione ci capiterà piuttosto spesso di imbatterci in cadaveri di persone legate al ragazzo scomparso; in quel caso dovremo ricostruire la dinamica degli omicidi setacciando la zona e collezionando tutte le prove ambientali sfruttando la nostra acuta percezione. Una volta rintracciati tutti gli indizi, questi si manifestano nell’ambiente come una serie di “istantanee fantasma” che ritraggono i vari momenti del delitto e che dobbiamo mettere nel corretto ordine cronologico. Una volta fatto questo, avremo accesso ad una scena d’intermezzo in cui potremo visionare la reale dinamica della morte e proseguire con l’investigazione.

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MX Video – The Vanishing of Ethan Carter

The Vanishing of Ethan Carter verte sulla sparizione di Ethan e sui suoi appunti che troveremo in giro. Ethan è un ragazzo sveglio e nutre la sua incredibile fantasia scrivendo storie brevi prendendo spunto dalle vicende quotidiane dei suoi familiari, rendendoli protagonisti di avventure incredibili. Purtroppo il suo talento viene mal visto dalla sua famiglia che sembra non gradire affatto che Ethan se ne stia sempre da solo e con la testa tra le nuvole. Attraverso le indagini di Prospero, ben presto scopriremo che la famiglia Carter nasconde molto di più che un immotivato odio per i racconti del ragazzo, e che la pace e la tranquillità che circondano la desolata Red Creek Valley è soltanto una facciata che nasconde oscuri segreti inconfessabili, legati ad un’entità maligna che opera attraverso gli esseri umani.

The Vanishing of Ethan Carter ci conquista fin da subito con un comparto tecnico superlativo, composto da stacchi visivi fotorealistici che lasciano letteralmente a bocca aperta. Camminare all’interno delle vastissime aree rurali di gioco e assaporarne i suoni e i colori è un’esperienza unica, avvalorata da un accompagnamento musicale emozionante. Tutto questo rende alla grande su Xbox One X: il rendering in 4K (disponibili anche le opzioni 1440p e 1080p) ed il supporto HDR danno vita a scene davvero mozzafiato, con un frame-rate sempre piuttosto solido che oscilla tra i 30 e i 60 fps a seconda della complessità delle scene (ma nelle opzioni è possibile fissarlo a 30 per chi preferisce un’esperienza più stabile). Sulla One base invece l’immagine non risulta altrettanto definita e si fanno sentire molti cali di frame-rate che rendono la fluidità più incostante. Anche sulla console base comunque il gioco è un gran bel vedere, ed in generale The Vanishing of Ethan Carter è artisticamente un vero gioiello, con un’interfaccia di gioco priva di qualsiasi indicatore su schermo, fatta eccezione per gli elementi con i quali possiamo interagire, e una bellezza evocativa di paesaggi e strutture fatiscenti che cede il passo più di una volta all’inquietudine. Paesaggi che, peraltro, possiamo anche esplorare liberamente nella “modalità libera” del gioco, esclusiva di questa edizione Xbox, che ci immerge negli scenari rimuovendo qualsiasi traccia di delitti e permettendoci di passeggiare al semplice fine di goderci gli scenari.

Il gioco si appoggia ad una scrittura basata principalmente su esplorazione ed enigmi essenziale ma molto efficace, che saprà tenervi incollati al pad per tutte le 4-5 ore di durata del gioco. Vi segnalo infine che il gioco è interamente tradotto in italiano per quanto riguarda sottotitoli e testi (compresi quelli dei molti documenti presenti negli scenari), mentre il doppiaggio rimane in inglese.

Amore

Semplicemente splendido

The Vanishing of Ethan Carter ci colpisce in piena faccia con il suo comparto visivo da urlo che su Xbox One X, con 4K e HDR, trova la sua miglior interpretazione sebbene abbia un’ottima resa anche sulla console base. Il gioco ci immerge in un’ambientazione affascinante e ricca di dettagli, che ci trasmette pace e tranquillità con i suoi stacchi visivi superlativi sapientemente accompagnati da una colonna sonora emozionante, ma che quando serve riesce anche a inquietarci, facendoci sentire dei bambini sperduti.

Una trama elaborata

– Sebbene di The Vanishing of Ethan Carter colpisca sulle prime il comparto visivo, scoprirete ben presto che il titolo è ben dotato anche dal punto di vista della trama. L’opera di The Astronauts vanta una buona scrittura, che verte tanto sull’investigazione quanto sulle surreali scene d’intermezzo, e in buona parte su avvenimenti che potremo soltanto immaginare leggendo i racconti brevi del piccolo Ethan in cui ci imbatteremo durante la nostra avventura e che dipaneranno gradualmente la matassa di enigmi proposti dal titolo.

Odio

Frame-rate incostante su Xbox One standard

– L’unico difetto imputabile all’ottima conversione di The Astronauts di The Vanishing of Ethan Carter sono i vistosi cali di frame-rate che intervengono sulla console base di casa Microsoft, che minano la fluidità generale delle immagini sullo schermo. Nulla di particolarmente gravoso soprattutto per un gioco di questo tipo, ma il difetto salta all’occhio durante le fasi esplorative. Ignorate pure questo paragrafo se invece avete una Xbox One X, visto che lì il frame-rate, pur non raggiungendo quasi mai i 60 fps se giocato a 4K, rimane costantemente godibile e mai fastidioso.

Tiriamo le somme

The Vanishing of Ethan Carter è un’avventura intensa che issa sugli scudi una splendida narrazione e un comparto artistico evocativo a dir poco spettacolare. Gli stacchi visivi del gioco e i paesaggi rurali che si estendono a perdita d’occhio sono secondi solo ad una scrittura che immerge fino al collo il giocatore nei meandri oscuri di Red Creek Valley e nei segreti inconfessabili della famiglia Carter, rendendolo avido di scoprire la verità sulla scomparsa del piccolo Ethan. Nonostante la relativa brevità di 4-5 ore, The Vanishing of Ethan Carter saprà emozionarvi e incollarvi allo schermo fino ad un drammatico quanto inaspettato epilogo. 8.7 MondoXbox.com

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Recensione – theHunter: Call of the Wild

L’anno appena trascorso ci ha portato, anche su console, una miriade di titoli dedicati alle più svariate tipologie di simulazione: tra questi non poteva mancare il mondo della caccia, che trova in theHunter: Call of the Wild di Avalanche (gli stessi di Just Cause e Mad Max, per intenderci) una interessante new entry. Scopriamone insieme le caratteristiche.

Il Gioco

Il genere dei simulatori di caccia è stato dominato, almeno durante la scorsa generazione, dalla serie Cabela’s; vista la notorietà di tale serie, mi permetto di iniziare la recensione rispondendo subito alla domanda che probabilmente molti di voi hanno in testa: no, theHunter: Call of the Wild non è un clone della serie di Activision. E’ qualcosa di diverso, e questa è stata una piacevolissima sorpresa.

Iniziamo quindi ad analizzare un titolo che di carne al fuoco ne mette davvero tanta, a partire da un menu iniziale al tempo stesso semplice, intuitivo e completo per quanto riguarda la customizzazione dell’esperienza di gioco. Da qui è possibile iniziare a giocare personalizzando il tipo di partita che andiamo ad affrontare, partendo dal rinominare il nostro cacciatore digitale, deciderne il sesso (sì, abbiamo anche le cacciatrici) e selezionare abbigliamento e caratteristiche somatiche. Creato il nostro personaggio, possiamo poi scegliere in quale riserva naturale iniziare la nostra esperienza di cacciatori virtuali. Le possibili alternative sono, purtroppo, solo due: Hirschfelden Hunting Reserve (Europa centrale) e Layton Lake District (Regione dei grandi laghi dal versante USA). Ognuna delle due riserve presenta della caratteristiche peculiari che permettono di giocare in ambienti completamente diversi. Se decidiamo di scegliere di cacciare nel vecchio continente avremo a che fare con un territorio ricco di arbusti e piante a foglia larga che circondano grandi zone collinari con una discreta densità di popolazione, per lo più residente in grandi fattorie di ispirazione coloniale. All’interno di Hirschfelden è possibile cacciare cervi di diverse tipologie, il tipico cinghiale selvatico mitteleuropeo, il bisonte europeo e la volpe rossa.

Se, al contrario, decidiamo di fare una trasvolata oceanica per cacciare nella regione dei grandi laghi USA, ci troveremo difronte ad un’area altamente selvaggia ed incontaminata con poche tracce di presenza umana. L’habitat è quello tipico dei territori del nord-ovest americano con una ricca concentrazione di abeti, larici e pioppi oltre alla presenza di laghi di diversa ampiezza e profondità. Qui è possibile cacciare alci (compreso il famoso wapiti di Roosevelt), orsi, coyote ed i cosiddetti cervi “whitetail” (a coda bianca) e “blacktail” (a coda nera). Quanto appena descritto riguardo alle location si applica anche al multiplayer online per il quale è possibile scegliere tra l’iniziare una partita da zero personalizzandone le impostazioni o unirci ad una partita già esistente. Torneremo più avanti su questa modalità.

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MX Video – theHunter: Call of the Wild

Una volta fatte le scelte iniziali, è ora di iniziare la caccia incamminandoci sui terreni spesso accidentati, acquitrinosi ed inospitali delle due aree di gioco. In primo luogo va detto come, in entrambi gli scenari, siamo inizialmente guidati da due assistenti in grado di illustrarci gli elementi basilari per non rischiare di perderci nei molti km quadrati dell’area di gioco. Nel caso dello scenario europeo la nostra assistente personale è la simpatica e gradevole Cornelia “Conny” Holzer, mentre in territorio yankee è il prode “Doc” a farci da cicerone. Questi personaggi simpatici e carismatici allo stesso tempo ci introducono alle meccaniche di base quali il riconoscimento delle tracce e delle vocalità emesse degli animali presenti nell’ambiente, così come sono in grado di aiutarci nel prendere alcune decisioni chiave e, soprattutto, ci spiegano come utilizzare il nostro prezioso smartphone.

Questo include diverse app/funzioni pensate per rendere ancor più piacevole la nostra esperienza di cacciatori in erba. La prima di queste è la mappa, nella quale è possibile individuare i punti d’interesse (quali le torri d’avvistamento piuttosto che le aree in cui è più facile fare incetta di prede) e marcarli in modo tale da renderli visibili sotto forma di nav-point con relativa distanza rimanente una volta chiuso il dispositivo. C’è poi il Mission Log, ossia il dettaglio della missione in corso con i relativi obiettivi raggiunti e da raggiungere. La sezione Inventory è invece dedicata all’inventario degli oggetti in nostro possesso, mentre un menu interessante è quello relativo alle Skills, ossia le abilità che sbloccheremo man mano che raggiungiamo obiettivi di gioco; queste sono molto diverse tra loro e comprendono, tra l’altro, la capacità di muoversi al buio, di distinguere meglio i versi degli animali o di riuscire a districarsi in condizioni metereologiche estreme.

Sempre al fine di migliorare le nostre potenzialità troviamo poi la sezione Perks, delle gratifiche che si possono ottenere sbloccando determinati obiettivi e che ci permettono di ottenere oggetti bonus (armi, proiettili, ecc).

Dopo questa panoramica sulle caratteristiche e funzioni di base del gioco, vediamo come si comporta una volta che decidiamo di scendere sul territorio di caccia prescelto. I controlli sono quelli che ci aspetteremmo da un normale FPS, con la possibilità di muoversi liberamente, saltare, accovacciarsi/stendersi a terra ed anche di correre. Ovviamente a seconda delle prede che stiamo seguendo può convenire camminare facendo il minor rumore possibile oppure appostarsi stesi a terra per non farsi notare. Anche mirare, zoomare (sia che si usi il binocolo o il mirino del fucile) e fare fuoco avviene in maniera analoga ai classici FPS, agendo sui due grilletti del pad. Una funzione specifica di questo titolo è invece quella che ci permette di esaminare le tracce lasciate dal passaggio degli animali: alla pressione di un tasto queste si colorano di bianco per indicare che la nostra preda è passata da diverso tempo, mentre diventano azzurre se il passaggio è stato più recente. La presenza di un’icona verde contrassegnata a forma di zampe d’animale indica il fatto che ci troviamo in un’area densamente popolata da prede: la vicinanza di una potenziale preda è inoltre segnalata dalla comparsa a schermo di un’immagine simile alle onde sonore, usa sorta di feedback visivo cel verso emesso dalla preda oggetto della nostra caccia.

Utilissima, infine, una piccola sezione in basso a destra dello schermo nella quale troviamo due icone fondamentali: una è rappresentata da un cuore e sta ad indicare la frequenza del nostro battito che, se troppo accelerato, ci renderà affannati e maggiormente fiutabili dalla fauna locale. L’altra ci dice quanto rumore stiamo facendo ed è ovviamente fondamentale per essere il più silenziosi possibile, oltre al dover stare attenti a non metterci sottovento per non svelare la nostra presenza e far scappare le nostre prede.

Una volta che saremo riusciti ad individuare la nostra preda, magari da lontano tramite il mirino del fucile o il binocolo, dobbiamo trovare la posizione migliore per non farci scoprire, dalla quale potremo finalmente fare fuoco e colpire la preda. Per ogni animale abbattuto si ricava un trofeo che, quando consegnato in uno degli avamposti sparsi per il terreno di gioco, sblocca punti esperienza e denaro in base al colpo o alla serie di colpi inferti all’animale. Ad esempio un colpo alla testa che uccide all’istante l’animale frutta chiaramente ricompense più ricche rispetto all’abbattimento con più colpi al corpo.

Oltre alla mera attività di caccia, il gioco ci permette anche di investire delle somme di denaro per costruire dei punti di appostamento ed impiegare alcune esche particolari per attirare potenziali prede più difficili da stanare. E’ inoltre, possibile acquistare altri tipi di armi quali fucili a pompa e revolver per completare il nostro armamentario ed avere la possibilità di colpire prede più astute e sfuggenti o più dure da abbattere. Non è invece possibile impostare un livello di difficoltà, perché questa è determinata dall’ambiente nel quale abbiamo scelto di muoverci e dal tipo di caccia che decidiamo di intraprendere. Il titolo presenta una curva di apprendimento ben bilanciata, ma richiede del tempo per essere dominato in tutto e per tutto senza mai far cadere il giocare in preda alla frustrazione.

Veniamo poi all’impatto visivo: come si presenta graficamente il titolo di Avalanche Studios? L’ho provato su Xbox One X alla luce del fatto che il gioco è ottimizzato per la nuova console Microsoft, e l’impatto visivo globale risulta ottimo, con una gestione ottimale dell’illuminazione e degli ambienti di gioco. A voler essere pignoli la mancanza del ciclo giorno/notte ed una certa approssimazione nella definizione degli elementi più piccoli (vedi le foglie più piccole o i fili d’erba) fa perdere qualcosa nella valutazione generale, anche se si tratta davvero di minuzie che non intaccano l’esperienza di gioco.

Infine un doveroso richiamo al multiplayer online, che ci permette di organizzare delle battute di caccia tra amici: è possibile creare un piccolo party e condividere l’avventura nelle riserve alla ricerca di prede, sfidando altri team per competere su chi riesce ad abbattere più prede. Qui l’elemento più interessante consiste nelle possibilità di cooperazione, in quanto ad esempio alcuni membri del team possono occuparsi dell’avvistamento delle prede mentre gli altri si muovono per appostarsi ed ucciderle. In questa modalità non ho rilevato problemi particolari di lag, e le partite scorrevano abbastanza bene; il lato dolente sta nel fatto che è praticamente impossibile trovare compagni di lingua italiana.

Amore

Gameplay immediato

– La miglior caratteristica di theHunter: Call of the Wild è la sua grande intuitività per quel che riguarda le dinamiche di gioco, cosa che gli permette di essere goduto da tutti purché chiaramente disposti ad accettarne il ritmo lento e cadenzato. Dovete assolutamente armarvi di pazienza, perché chiaramente qui non siamo in un FPS in cui si spara all’impazzata, e può capitare di attendere anche 20-30 minuti prima di poter sparare il colpo decisivo alla nostra preda; allo stesso tempo, però, è particolarmente appagante strisciare ventre a terra nella foresta o attraversare corsi d’acqua immersi fino a metà busto pur di arrivare al momento del confronto decisivo con il nostro obiettivo. Il pad risponde davvero alla grande e le azioni vengono compiute con estrema facilità, pur nella difficoltà del gioco stesso.

E’ una questione di Codex

– Accedendo al menu del nostro smartphone possiamo possiamo entrare in questa fantastica sezione nella quale, oltre ad avere sottomano il nostro profilo di cacciatore con tutti i premi vinti o obiettivi raggiunti, possiamo sapere tutto, ma proprio tutto, degli animali presenti nel gioco: il loro comportamento (miti, aggressivi, arrendevoli, sfuggenti), il loro habitat preferito, le loro abitudini sociali (vita in branco o in solitario), il loro periodo di maggiore attività (giorno o notte), le difficoltà nel cacciarli ed, infine, il migliore assetto (in termini di equipaggiamento) per riuscire ad ucciderli. Una funzione utilissima, visto che difficilmente il giocatore medio conosce le abitudini e le tecniche di caccia del wapiti di Roosevelt.

Voglio godermi la natura

– E’ davvero splendido poter salire sulle torri d’avvistamento e goderci il panorama mentre cerchiamo il punto migliore per appostarci e/o seguire le nostre prede. E’ possibile scorgere i punti migliori per sparare il nostro colpo o analizzare le tracce del passaggio della nostra potenziale preda. Ottimi i riflessi di luce e la possibilità di mettere a fuoco i punti d’interesse con un dettaglio davvero buono. Gran parte del merito va all’Apex Engine, già sperimentato con ottimi risultati in Just Cause 3 e Mad Max.

Una “colonna sonora” funzionale

– Il suono di sottofondo della natura che ci circonda ed i versi emessi dalle nostre potenziali prede sono ben riprodotti e ci garantiscono un’ottima concentrazione sia nelle fasi più tipicamente dedicate all’esplorazione, sia in quelle più concitate nelle quali siamo impegnati a mirare e far fuoco.

DLC già compresi nel prezzo

– Questa versione console del gioco include due DLC che erano a pagamento nella versione PC. Si tratta dell‘ATV Saber 4×4, che ci permette di salire a bordo di un ATV ed esplorare l’area di gioco con un mezzo a 4 ruote (comodo per la sua velocità ma pessimo per l’elevata intensità di rumore prodotto), e del DLC Tents & Ground Blinds, che aggiunge al nostro equipaggiamento una tenda da campeggio mimetica, ideale per appostarci senza farci notare dalle nostre prede in aree prive di coperture naturali, ed una normale tenda da campeggio che, una volta piazzata, è utilizzabile come punto di viaggio rapido per spostarci velocemente tra le vaste mappe.

Odio

Non è un gioco per italiani

– Purtroppo testi e parlato del gioco sono completamente lingua inglese, un vero peccato perché il tutto ne avrebbe guadagnato in appeal ed in longevità per i meno anglofoni. Probabilmente la scelta è anche dovuta al fatto che il mercato italiano non comporta grandi soddisfazioni, in termini economici, per titoli di questa tipologia. La scusa è forse semplicistica ma, al di là di ciò, ritengo che un minimo di attenzione sarebbe stata opportuna almeno nei testi, data la non elevata quantità e varietà di testo presente nel gioco.

Geograficamente limitato

– Due sole aree di gioco, seppur vaste e variegate, non possono essere considerate sufficienti ai fini della longevità del titolo. Si spera che, come nella versione PC, vengano implementati dei DLC in grado di aggiungere location diverse per tipologia ed area geografica.

Tiriamo le somme

Al netto dei limiti impliciti in questa tipologia di gioco, theHunter: Call of the Wild rappresenta un valido e divertente simulatore di caccia. La presenza della dovuta dose di realismo, resa evidente dal ritmo di gioco non certo frenetico, l’aggiunta di alcuni elementi tipici degli RPG e la presenza di un set di missioni che esulano dal semplice abbattimento di una specifica preda, riesce a conferire al gioco di Avalanche Studios uno spessore in grado accontentare appieno gli amanti del genere. Inoltre, un gameplay solido e completo ed un comparto tecnico di primo livello ci aiutano a consigliare l’acquisto anche ai neofiti, pur in presenza di alcuni difetti sicuramente di secondo piano. 8.0 MondoXbox.com

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Recensione – Dungeons 3

Il Gioco

Dungeon Keeper. E’ un nome che vedrete riemergere spesso in questa recensione, perché Dungeons 3 non fa segreto di proporsi come un seguito spirituale della vecchia serie strategica di Bullfrog, firmata nient’altro che da Peter Molyneux. Si trattava di una saga davvero innovativa a suo tempo (parliamo della fine degli anni ’90), dove il giocatore era chiamato ad impersonare una forza demoniaca con il compito di espandere il proprio impero in dungeon sotterranei, sfruttando la manodopera dei propri “minion” demoniaci.

Il titolo di Realmforge Studios prende ampiamente spunto dalla serie di Bullfrog, offrendoci un look molto simile (anche se chiaramente più al passo coi tempi) con una visuale isometrica, un HUD molto simile e meccaniche di gioco pressoché identiche. Il gioco ci vede impersonare il signore dei dungeon con la possibilità di costruire miniere, alloggi per i demoni al nostro servizio, caserme per assoldare e addestrare soldati demoniaci, oltre a creare trappole e meccanismi di difesa contro gli umani che cercheranno di invadere il nostro regno. Ed impersonando un malvagio signore oscuro, ovviamente la forza del terrore fa parte delle nostre tecniche di persuasione: visto che spesso e volentieri i minion possono stancarsi o distrarsi dai compiti a loro assegnati, possiamo usare pugno duro, letteralmente. Il cursore con il quale si muoviamo sul mondo di gioco non è infatti altro che la nostra mano “divina” con la quale possiamo prendere, spostare ed appunto schiaffeggiare i nostri subalterni per rimetterli in riga o per indicargli la giusta strada.

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